di Claudia De Martino*

Il 46° Presidente degli Stati Uniti è appena stato eletto e già l’Ue, l’Iran e una serie di altri Paesi hanno tirato un sospiro di sollievo: la nuova Amministrazione democratica ripristinerà il tradizionale ruolo degli Stati Uniti come potenza rispettosa delle norme internazionali e attenta alle relazioni multilaterali con i Paesi alleati. Una linea di politica estera maggiormente coerente con i valori americani, anche se impegnata a proseguire l’azione di disimpegno Usa in Europa e Medio Oriente avviata dal Presidente Obama.

Tuttavia, di fronte al coro entusiasta dei Paesi alleati, l’Egitto è destinato a emergere come un’eccezione. Abdel Fatah al-Sisi – il Presidente che con pugno di ferro guida il Paese da ormai 7 anni dopo un colpo di stato ai danni della Fratellanza Musulmana regolarmente eletta, e che nel referendum dell’aprile 2019 ha ottenuto l’estensione a un terzo mandato fino al 2024 – era stato definito dal Presidente Usa uscente come un grande alleato, anzi, il suo “dittatore preferito”. Ora che l’Amministrazione Trump, con tutte le sue eccentricità, si avvia al termine, al-Sisi si ritroverà senza il suo più potente protettore. Se per Trump il rapporto con l’Egitto passava solo per la cooperazione in materia di antiterrorismo, è improbabile che la nuova Amministrazione Biden gli permetta di continuare ad usufruire di così ingenti aiuti militari Usa a fronte di una collaborazione sempre più stretta con Cina e Russia, e della continua repressione dei propri cittadini sul piano interno.

Negli ultimi cinque anni della Presidenza Trump, infatti, al-Sisi ha avviato una stretta cooperazione commerciale con la Repubblica popolare cinese, i cui investimenti nel Paese sono cresciuti del 60%, andando a finanziare i megalomani progetti di sviluppo del dittatore egiziano, come il nuovo distretto centrale di affari al Cairo, la costruzione della nuova capitale Cairo 2 con oltre 20 torri, tra cui dovrebbe svettare il più alto grattacielo d’Africa (400 metri circa) mai costruito nel deserto, un vasto piano di impianti di produzione di energia solare e l’apertura di centinaia di fabbriche tessili cinesi a Sadat city. L’obiettivo prioritario di Pechino resta l’incorporazione del Canale di Suez – la via più diretta tra Asia ed Europa – come zona economica speciale e hub commerciale della nuova “Via della seta” (la cosiddetta “Belt and Road Initiative”).

A fronte di ciò, la Cina è pronta ad assecondare il dittatore egiziano in tutti i suoi piani di sviluppo, non importa quanto sostenibili, tanto che lo yuan è diventata la terza divisa monetaria in Egitto dopo il pound egiziano e il dollaro. Tuttavia, è probabile che Biden rialzerà la posta con l’Egitto chiedendo la rinuncia alla rete cinese di comunicazione 5G in cambio del sostegno diplomatico americano nel conflitto che lo oppone all’Etiopia sulla Grand Ethiopian Renaissance Dam, la “Grande Diga del Millennio”.

Ancora più diretta sarà la pressione Usa sull’Egitto per quanto riguarda i rapporti con la Russia. L’Amministrazione democratica non apprezza lo schieramento del Cairo a favore del generale Haftar (vicino a Mosca) sul fronte libico. Inoltre, nel 2018 al-Sisi ha firmato con una società russa un contratto per la costruzione di una centrale nucleare a scopi civili a Dabaa (a ovest di Alessandria) e dato alla Russia il via libera per alcuni progetti infrastrutturali sempre nell’area del Canale, mentre il commercio bilaterale tra i due Paesi è enormemente cresciuto negli ultimi tre anni (+62%). Agli Usa preme soprattutto arrestare il commercio di armi russe (elicotteri e jet) e le esercitazioni congiunte tra i due eserciti, che potrebbero preludere a una collaborazione nel settore dell’intelligence.

Infine Biden potrebbe ripartire proprio dall’Egitto per ribadire con fermezza la difesa dei diritti umani come priorità della politica estera americana, e per rilanciare il dialogo interrotto tra Stati Uniti e società civili in Medio Oriente, chiedendo la liberazione di parte dei 60.000 prigionieri politici del Paese, e soprattutto di coloro che sono stati tenuti in carcere ben oltre i due anni di custodia cautelare sulla base di accuse pretestuose come “dichiarazione del falso” o “cattivo utilizzo dei social media”, premendo per un’amnistia generale nel Paese e per la revisione delle condanne comminate agli esponenti dei Fratelli Musulmani nei processi farsa collettivi (75 condanne a morte decretate collettivamente da un tribunale militare solo nel 2018).

Biden ha infatti promesso in campagna elettorale che non vi saranno più “assegni in bianco” per il dittatore egiziano, citando il caso giudiziario aperto negli Usa dall’attivista Mohamed Soltan, torturato in Egitto, contro l’ex Primo ministro el-Beblawi per il suo arresto nel 2013. Il cambio di passo non sarà certamente imminente, ma molto più che su Arabia Saudita e Israele – alleati regionali forti degli Usa – è sul banco di prova dell’Egitto che il mondo si attende da Biden quella discontinuità per cui tante speranze si sono riaccese nei confronti degli Usa dopo le elezioni del 3 novembre.

*ricercatrice ed esperta di questioni mediorientali

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