di Gabriele Gelmini
Alla vigilia del 45esimo anniversario dell’Accordo tripartito di Madrid e a 29 dall’ultimo ‘cessate il fuoco’, la guerra sta ricominciando, a quanto pare proprio in questo momento: il Marocco e il Fronte Polisario, il movimento di ispirazione socialista che lotta per l’indipendenza saharawi, sono di nuovo ai ferri corti per la gestione del territorio del Sahara Occidentale, ex colonia spagnola dallo status internazionale ancora incerto. Sperando di non dover assistere a un peggioramento dello scenario nelle prossime ore, questo scontro è solo l’ultima pagina di un conflitto che prosegue dall’epoca della decolonizzazione, nel lontano 14 novembre 1975.
Il Marocco è entrato nei territori del Sahara Occidentale controllati dalla Missione ONU #Minurso. L’Europa intervenga adesso per scongiurare una nuova escalation del conflitto e per riaprire il processo di pace. #saharawi
— Erasmo Palazzotto (@EPalazzotto) November 13, 2020
Quando sento parlare di Africa e colonie, non so voi, ma io automaticamente penso a questo: una coperta stesa sopra le regioni contese. Una pennellata uniforme che soffoca i legittimi interessi di chi non ha altro che la voce per potersi esprimere. Ecco, accanto alle storie e alle grandi battaglie che arrivano alle orecchie di noi occidentali c’è quella – passata sotto silenzio, ma non per questo minore – di un popolo che rivendica i propri diritti da ormai quasi cinquant’anni, senza soluzione.
Il 14 novembre del 1975, la Spagna di Franco – che morirà sei giorni dopo – decide di abbandonare al suo destino la sua colonia africana, il Sahara Occidentale, quella porzione di terra a sud-ovest del Marocco che nelle cartine geografiche viene sempre delimitata da confini tratteggiati. Dietro le pressioni Onu per la decolonizzazione e le rivendicazioni dei Paesi limitrofi, la Spagna firma gli Accordi tripartito di Madrid con il Marocco e la Mauritania, che prevedevano un referendum per l’autodeterminazione.
I due Paesi vicini, invece, invadono il Sahara occidentale, se lo spartiscono (al Marocco andrà una gran parte affacciata sul mare, alla Mauritania una piccola porzione interna) e isolano con sei muri progressivi i territori conquistati, respingendo la popolazione autoctona che si rifugerà nel campo profughi di Tindouf, in Algeria.
Lo scenario nel corso degli anni rischia di precipitare: i saharawi fuggiti costituiscono il Polisario, il movimento di ribellione che aspira al rientro in patria; ottengono il ritiro della Mauritania dai territori occupati e proclamano l‘indipendenza, ma il conflitto armato contro il Marocco si rivelerà privo di risoluzione. L’Onu insiste per il ‘cessate il fuoco’, inserisce il Paese nella lista dei ‘territori non autonomi’ e costituisce la missione ‘Minurso’ nel 1991, per vigilare sullo svolgimento del famoso referendum.
Ma ormai il campo di Tindouf è diventato molto popoloso, non si può più stabilire chi avrebbe diritto di voto e il Marocco, supportato dalla Francia che al tavolo delle trattative ha diritto di veto, si rifiuta di aprire qualsiasi spiraglio.
Dunque il 31 ottobre 2020 la missione di pace viene prorogata per un altro anno, come negli ultimi 29 anni. Per la 50esima volta e dopo una spesa complessiva di un miliardo e mezzo di dollari. Il muro di separazione ha raggiunto i 2720 chilometri ed è il più lungo al mondo, dopo la muraglia cinese; i campi attorno alla barriera contengono circa 6000 mine antiuomo e la situazione, per ora, rimane in stallo: la necessità della pace – o perlomeno quella di non fare la guerra – vince ancora, a discapito della giustizia. Almeno fino a oggi.