Donald Trump continua a non riconoscere la vittoria di Joe Biden. Di più, non pare avere alcuna intenzione di riconoscerla nelle prossime settimane. La strategia del team Trump – e di gran parte del partito repubblicano – è soprattutto una: insistere sulla presenza di una vasta e coordinata rete di brogli elettorali (di cui peraltro non esiste prova) per minare la legittimità della vittoria e quindi della presidenza di Joe Biden. Tutti ovviamente sanno che, prima o poi, Trump dovrà abbandonare la Casa Bianca. Ma la strategia serve appunto a preparare il futuro più prossimo e al tempo stesso riflette la forza straordinaria raggiunta dal trumpismo: la forma che Donald Trump ha dato al conservatorismo americano.
Nessun presidente repubblicano ha avuto più voti di lui. Riconquista il bottino del 2016 e avanza nelle città – Più di settantadue milioni di americani hanno votato per Trump alle ultime elezioni. Un risultato non sufficiente per battere Joe Biden (che ha ottenuto oltre settantasette milioni di voti), ma comunque eccezionale. Nessun presidente repubblicano ha fatto meglio di lui. Trump non solo ha conquistato più voti in molte delle aree del Paese che era riuscito a vincere nel 2016 (complessivamente, ha catturato nove milioni di voti in più rispetto a quattro anni fa), ma ha aumentato i suoi consensi in città – per esempio Philadelphia e Detroit – dove una sua avanzata pareva improbabile. In altre parole, Trump ha allargato la base repubblicana e conservatrice, nonostante l’infuriare della pandemia e della crisi economica. Come ha detto Joe Gruters, chairman del partito repubblicano della Florida: “Gli americani non vogliono le tasse. Non vogliono i lockdown. Vogliono la libertà”.
Per quanto quindi la gestione di Trump dell’emergenza sanitaria abbia sollevato critiche e polemiche, una parte importante del Paese si è trovata d’accordo con lui. Per questo ora i repubblicani non hanno motivo di mollare Trump. Il presidente si è rivelato per loro una gallina dalle uova d’oro. Il Grand old party ha ottenuto almeno sei seggi in più alla Camera e manterrà con buone probabilità il controllo del Senato (bisogna comunque attendere il ballottaggio per i due seggi della Georgia, il 5 gennaio). Trump non ha distrutto il partito repubblicano, come spesso si è detto. Trump ha dato al partito repubblicano più forza al Congresso. Gli ha dato in questi anni le leggi che i conservatori desideravano, in tema di tasse, deregolamentazione ambientale, immigrazione. Gli ha dato tre giudici della Corte Suprema e oltre duecento giudici federali. Chiaro che adesso Mitch McConnell e buona parte del partito si allineino ordinatamente dietro le accuse di brogli elettorali. Restano pochi, sparuti, senatori repubblicani che non capitolano alla retorica di Trump. Lisa Murkowski, Mitt Romney, Susan Collins e Ben Sasse hanno riconosciuto la vittoria di Biden. Si tratta per l’appunto di una sparuta minoranza di moderati; per il resto, il Gop dimostra di essersi totalmente “trumpizzato”.
L’anima unica del Grand Old Party e la dinastia Trump – La “trumpizzazione” del partito repubblicano è passata attraverso una sua omologazione ideologica e attraverso la scomparsa delle correnti, delle tradizioni, delle identità di cui storicamente il Gop è stato ricco. Se ancora fino agli anni di George W. Bush il partito presentava diverse anime – i “conservatori fiscali”, i libertarians, la destra religiosa, i neoconservatori, i moderati e “atlantisti” della East Coast – oggi quell’antica diversità risulta totalmente appiattita. Oggi esiste Trump e il trumpismo. Nient’altro. Il partito repubblicano si è trovato a stipulare una sorta di patto faustiano: ha rinunciato alla propria anima, alla propria diversità, alla propria ricchezza politica e ideologica, in nome dei voti e dei vantaggi legislativi che Trump è riuscito a ottenere. Non è un caso che Trump parli dei settantadue milioni di americani che lo hanno votato come di voti “propri” e non come patrimonio del partito che lui rappresenta. Quei settantadue milioni di americani sono diventati la sua base elettorale. Si identificano con il loro leader come il partito si identifica con il suo leader.
Tutto questo – allargamento della base elettorale, conquista del partito repubblicano, spostamento a destra dell’asse politico e legislativo – deve essere considerato nel momento in cui Trump rifiuta di concedere la vittoria a Biden. Trump infatti non si comporta come un presidente uscente. Si comporta come il leader indiscusso di un movimento che nessuna sconfitta elettorale può davvero scalfire. Lui dispone dei voti. Lui controlla il partito. Lui ha creato una dinastia familiare – Donald Jr., Eric, Ivanka, Jared Kushner – che difficilmente abbandonerà la politica. Lui parla già di ripresentarsi alle presidenziali 2024, in quella che viene già ribattezzata “Resurrection Run”.
Le origini del successo – C’è però un altro elemento, di ben più lungo periodo, che aiuta a capire la fortuna di un uomo e delle sue politiche. Trump è sicuramente stato un presidente “larger than life”, un personaggio dotato di un ego smisurato, una personalità capace di incarnare aspirazioni e caratteri di milioni di americani. Si sbaglierebbe però a spiegare il suo successo con il solo dato umano e caratteriale. In realtà, la parabola politica di Trump si innesta su quella rivoluzione neoliberale che parte negli anni Ottanta e che nel 2016 ha ormai prodotto un’America profondamente spaccata per classi, appartenenze etniche, aree geografiche, città e campagne, culture e abitudini di vita. In quest’America divisa e segnata da profonde diseguaglianze di reddito e di conoscenze, ha ribollito per anni una classe media e popolare bianca, che è sprofondata sempre più giù, tra disoccupazione, dissoluzione dei nuclei familiari, assuefazione alle droghe, perdita di antiche identità. Gli “Stati Uniti della disperazione”, come sono stati chiamati.
L’intuizione di Trump, nel 2016, è stata quella di percepire la vastità di questa disperazione (largamente sottostimata dai democratici anche durante l’epoca Obama) e offrire ad essa una piattaforma politica e una catarsi emotiva. Ecco quindi, proprio durante la campagna elettorale del 2016, l’insistenza di Trump sul tema delle infrastrutture e su un vasto piano di ricostruzione del Paese “crollato nella distruzione e nella decadenza (tra l’altro, tra le prime iniziative del presidente ci fu l’invito alla Casa Bianca dei leader delle maggiori organizzazioni sindacali delle costruzioni). Ecco la promessa, sempre in campagna elettorale, di una riforma del sistema di tassazione che facesse pagare di più a istituzioni finanziarie e mondo degli hedge funds. Ecco il rilancio del tema del nazionalismo economico, da realizzare attraverso l’autonomia energetica e produttiva e la guerra commerciale con i Paese rivali nel mondo, in primo luogo la Cina. Ecco un messaggio culturale che esaltava l’immagine di un’America bianca e cristiana, di nuovo forte e orgogliosa, in sintonia con le ansie di una working-class bianca sempre meno certa del suo ruolo e della sua identità.
Un populismo economico da campagna elettorale – Nella realtà, Trump non ha fatto quasi nulla di quello che aveva promesso. Anzi, si è dimostrato particolarmente propenso a soddisfare le richieste dei gruppi di potere e influenza tradizionalmente più vicini al partito repubblicano. Ha fatto passare una riforma delle tasse che favorisce i settori più ricchi della popolazione. Non ha intaccato i privilegi di Wall Street. Ha offerto alle industrie americane centinaia di norme di deregolamentazione ambientale. Non ha mai nemmeno provato a far passare quella riforma sanitaria che avrebbe dovuto sostituire l’Obamacare e dare agli americani un’assistenza migliore e meno costosa. Unica rottura del presidente, rispetto all’ortodossia economica repubblicana, ha riguardato i programmi di social security, di Medicare, di Medicaid, su cui la working class in larga parte dipende e che Trump si è rifiutato di tagliare. Nell’insieme, comunque, il populismo economico con cui Donald Trump è salito al potere si è rivelato un argomento da campagna elettorale. I gruppi di interesse che hanno sostenuto questa amministrazione non sono molto diversi da quelli che hanno accompagnato la rivoluzione neoliberale reaganiana degli anni Ottanta e poi il “Contract with America” di Newt Gingrich degli anni Novanta.
Trumpismo, mix di equilibri di interesse e pulsioni distruttive – Ciò non vuol dire che il conservatorismo che Trump ha in questi anni predicato non abbia degli elementi prorompenti di novità rispetto alla storia repubblicana. Quegli elementi ci sono, in parte ereditati dai vari Tea Party che all’inizio degli anni Duemila sono sorti come funghi in molte parti degli Stati Uniti. E quindi: la sfiducia verso la politica e il disprezzo demagogico per i “politicanti” di Washington; il fastidio per regole, norme consolidate, istituzioni; l’idea che l’unica dimensione de perseguire sia quella interna, nazionale, e che la presenza degli Stati Uniti sulla scena internazionale sia una perdita di tempo e di denaro. A questo, Trump ha aggiunto una vocazione inarrestabile all’insulto e allo scontro, il gusto della bravata, l’istinto dello showman, l’appello diretto, autoritario, “televisivo”, al suo elettorato.
Rispetto dei più tradizionali equilibri di interesse dell’establishment repubblicano e pulsioni distruttive dell’ordine consolidato convivono quindi nel trumpismo, e fanno sì che oggi il presidente riesca a mantenere l’appoggio sia dei repubblicani di Washington sia di una parte consistente di coloro che sono stati “lasciati indietro” nei processi di trasformazione capitalistica. Ancora nella dichiarazione di non riconoscimento della vittoria di Joe Biden, Trump ha ripetuto con orgoglio di aver reso il Gop “il partito della classe operaia”. La forza del trumpismo sta quindi qui: non aver rivoluzionato la tradizione repubblicana, conservatrice, ma averla accolta, aggiornata, trasformata. Lui resta, in fondo, l’allievo di Roy Cohn, l’esplosivo avvocato repubblicano che con i suoi maneggi, prese di posizione, sparate ha segnato la storia del movimento conservatore americano, dall’esecuzione di Julius ed Ethel Rosenberg agli anni di Reagan. Roy Cohn fu colui che, nella New York degli anni Settanta e Ottanta, accompagnò i primi passi pubblici di Trump.
Per questo il presidente è destinato a lasciare le stanze della Casa Bianca, ma le sue idee, il suo movimento, probabilmente anche la sua persona fisica, sono destinati a restare con noi a lungo. Una possibile limitazione, all’allargarsi del trumpismo, potrebbe venire dalla capacità dei democratici nei prossimi quattro anni di accogliere richieste e timori della working-class bianca. Ma questa è davvero un’altra storia, e riguarda il futuro.