Il modo in cui Sars Cov 2 si diffonde non è sempre uguale. Infatti, non tutti i positivi sono ugualmente contagiosi; la maggior parte delle trasmissioni sembrano legate a specifici eventi e ai cosiddetti “superdiffusori”. In pratica, la maggior parte delle infezioni proviene da poche persone, mentre molte altre persone infette non trasmettono la malattia. Questa è sia una buona che una brutta notizia. E in piena seconda ondata vale la pena ricordarlo. Da un lato, infatti, significa che se questi eventi vengono controllati, i contagi possono essere ridotti senza bloccare completamente un paese. Ma ed ecco la brutta notizia, richiede anche un ampio lavoro di monitoraggio per collegare le persone positive rilevate con gli eventi in cui sono stati infettati. È quello che si chiama fattore K. “Più precisamente il coefficiente di dispersione K”, dice Giovanni Maga, direttore dell’Istituto di genetica molecolare del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Igm).
“In parole semplici, questo parametro ci dice quanto un virus – continua – ha la tendenza a causare ‘grappoli’ (i famosi cluster) di infezione. Tanto più il valore è vicino a 0, tanto più i focolai tendono a manifestarsi in gruppi di persone a seguito di un singolo evento di trasmissione. Per Sars Cov 2, il valore di K si stima essere intorno a 0,1, un po’ più basso di quello della Sars (0,16) o della Mers (0,25). Questo riflette la tendenza del virus da un lato a diffondersi a distanze brevi e dall’altro a dare origine a eventi di super-diffusione, ovvero grappoli di casi a partire da un singolo individuo”. Si stima che tra il 60% e l’80% dei casi possano essere dovuti ad un 10%-20% di persone infette, i cosiddetti “superdiffusori” appunto. Se immaginiamo cinque infetti, due non infetterebbero nessuno, altri due infetterebbero forse una persona ciascuno e il quinto ne infetterebbe otto. “Questo dato ha un valore da un punto di vista epidemiologico: luoghi confinati e affollati (bus, negozi, stazioni, ma anche corsie di ospedale o ricoveri per anziani) o dove si svolge intensa attività fisica al chiuso in ambienti poco areati, possono diventare luoghi di superdiffusione. Per questo adottare barriere fisiche (distanziamento, mascherina), è fondamentale per limitare la diffusione dell’infezione”, dice Maga.
Nonostante l’importanza del fattore K, durante la prima ondata, si è parlato molto più di fattore R che misura quante infezioni si verificano in media per ogni caso. Questo numero evoca uno schema di trasmissione omogeneo: se una persona positiva infetta tre persone, quelle tre infette ne infettano altre tre e così via. Questo rappresenta, più o meno, il comportamento dell’influenza. “Abbiamo imparato tutti cosa è il fatidico numero R o numero di riproduzione: il numero di persone che un singolo individuo infetto da un virus può a sua volta infettare”, spiega Maga. Ma ci sono prove che le infezioni Covid-19 non funzionano in questo modo, ma sono regolate da ciò che accade in gruppi di persone. Recenti ricerche indicano che pochi eventi, come un concerto o una riunione scarsamente ventilata, e poche persone malate, magari con un’elevata carica virale o socialmente molto attive, sono responsabili di gran parte delle infezioni. Per questi ci sono sempre più indicazioni che sottolineano l’importanza dei cluster, cioè dei gruppi di persone da cui hanno origine i contagi. Questo avrebbe conseguenze su come combattiamo l’epidemia: ci consentirebbe di comprendere meglio i focolai e avere un modo più efficace per monitorare i casi. Dovremmo conoscere bene i cluster per “agire chirurgicamente”. Se scopriamo che ci sono luoghi e circostanze in cui sono probabili focolai, si possono imporre misure per prevenirli. Il Giappone – che in questi giorni sta registrando un aumento di contagi – è però uno dei paesi che ha concentrato la propria strategia sull’identificazione dettagliata di ciascun cluster con risultati eccellenti se li paragoniamo a quelli italiani e di molti altri paesi europei. A livello nazionale i casi di Covid in Giappone, che ha 126 milioni di abitanti, si assestano a 117.261 contagi, e 1.900 decessi complessivi.
Ma questo richiede una perfetta strategia di tracciamento. “Un buon sistema di tracciamento è uno dei migliori investimenti economici, per sapere quali attività sono più o meno sicure e per fare chiusure molto selettive”, dice Miguel Hernán, professore di epidemiologia presso l’Università di Harvard. Andare all’origine dell’epidemia è una strategia per interrompere le catene del contagio. In questo momento il tracciamento funziona così: se risulto positivo, vengono cercati i contatti che potrebbero aver trasmesso l’infezione e quelli a cui avremmo potuto trasmetterla. Ma è anche probabile che non abbia contagiato nessuno. Invece, per monitorare un’infezione che viene trasmessa in gruppi bisogna andare proprio nel luogo in cui si è rimasti contagiati. Perché probabilmente sarà un cosiddetto evento di “superdiffusione”. “La cosa migliore sarebbe isolare preventivamente coloro che hanno formato il gruppo e fare un tracciamento più dettagliato e all’indietro”, spiega Yamir Moreno dell’Università di Saragozza, che ha analizzato l’impatto degli eventi sulla diffusione del Covid 19 in Spagna. “Ti consentirebbe di vedere le ramificazioni delle catene di contagio che non vedresti facendo il monitoraggio tradizionale”, aggiunge.
Con lo screening convenzionale, la persona infetta studiata dai tracker ha poche possibilità di trasmettere la malattia. Ma la persona che l’ha infettato apparterrà probabilmente al 10% o al 20% responsabile dell’80% delle infezioni. Intorno potrebbero esserci più infezioni. “Cercare di trovare la fonte dell’infezione offre maggiori possibilità di identificare un cluster”, spiega Mirjam Kretzschmar, professoressa di Dinamica delle malattie infettive all’Università di Utrecht. “In questo backtracking è necessario identificare i contatti che un caso confermato ha avuto fino a due settimane prima di risultare positivo”, aggiunge. Il problema è che c’è bisogno di molta velocità. Il team di Kretzschmar stima che se passano più di tre giorni dalla comparsa dei sintomi prima di effettuare il test e procedere con l’isolamento, lo screening darà pochi frutti. Soprattutto se quel tracciamento è a ritroso: gli altri infettati dal “superdiffusore” saranno più difficili da localizzare e avranno avuto molte opportunità di trasmettere.
Il fattore K, tuttavia, presenta alcune incognite. La trasmissione in cluster aiuta a spiegare perché il virus ha colpito prima alcuni punti. Ma questo in parte potrebbe essere una coincidenza. La densità della popolazione, le abitudini o il clima sono fattori che vengono spesso menzionati. Ma diversi studi indicano la presenza di eventi di contagio, come un funerale, un mercato, un call center, una festa al chiuso e così via. Uno di questo eventi potrebbe determinare l’impatto di un’epidemia. Questa dinamica potrebbe spiegare, ad esempio, perché in Italia i casi sono aumentati alle stelle prima che in Germania o che i primi casi in Spagna o Francia non hanno causato un focolaio. Ma c’è una buona notizia: se pochi eventi sono responsabili di molte infezioni, un’epidemia potrebbe essere controllata senza dover agire con chiusure allargate, almeno in teoria. Se ci sono molte situazioni che comportano pochi rischi, e ne siamo consapevoli, potremmo recuperare pezzetti di vita normale senza metterci in pericolo.