Un calo medio di fatturato pari al 27,5% nel terzo trimestre dell’anno, con picchi del 32% per le concerie. Sono questi i numeri della crisi che la pandemia di coronavirus ha indotto nella seconda industria italiana, capace di fatturare nel 2019 oltre 100miliardi di euro, e che ora è chiamata a rimboccarsi le maniche per ripartire, facendo leva su quella sua unicità che l’ha resa celebre in tutto il mondo. Stiamo parlando del settore moda e lusso, il cui ritratto che emerge dalla “Terza Indagine relativa all’impatto del Covid-19 sulle imprese del settore”, a cura del centro studi di Confindustria Moda, è tutt’altro che positivo. La ripresa, rispetto al periodo buio del primo lockdown, c’è stata, trainata soprattutto dai mercati asiatici e dall’e-commerce, ma le nuove chiusure e la situazione di incertezza a livello globale non aiutano.
“Le aziende che compongono le nostre filiere sono generalmente piccole e medie imprese: l’andamento del fatturato nel terzo trimestre conferma una debolezza più marcata rispetto ad altri settori, dovuta da una parte alla diminuzione del mercato domestico, e dall’altra alle grandi difficoltà nell’export, attività che storicamente ha aiutato tutto il Made in Italy. Ne è prova il massiccio utilizzo della cassa integrazione che per 1 azienda su 2 riguarda oltre il 60% dei dipendenti”, spiega Cirillo Marcolin, presidente di Confindustria Moda. Il settore della moda ha già perso la stagione primaverile, con la merce consegnata subito prima del lockdown e rimasta sugli scaffali, e ora si rischia di perdere anche il Natale, la stagione più redditizia. La parentesi di aperture estive, dicono i commercianti, non è bastata a dare sollievo al settore. Ma gli operatore del settore sono ottimisti e già proiettati nel 2021, anno in cui prevedono una sensibile ripartenza dei consumi, sull’onda di quanto sta già accadendo nei Paesi asiatici dove la pandemia è ora sotto controllo.
I terzisti della moda– “Il secondo trimestre di quest’anno è stato il più difficile. Abbiamo registrato oltre il 35% di calo del fatturato rispetto allo stesso periodo del 2019. Poi però c’è stata una sensibile ripresa, abbiamo ripreso a lavorare e siamo riusciti ad appianare le perdite intorno al 20% in meno e ora contiamo di chiudere il 2020 con un -20-25%”, spiega a Ilfattoquotidiano.it Fabio Blanco, product manager di Sps Manifatture, azienda del Salento che si occupa della progettazione e della realizzazione di capi per sfilate e intere collezioni di prêt-à-porter e couture donna per le grandi griffe internazionali del lusso. “Siamo riusciti a trovare accordi con i clienti che a marzo e aprile non ci avevano saldato le fatture e i pagamenti ora sono arrivati. Ma per quanto questa ripresa iniziata con l’estate sia stata importante, il segno meno ce lo porteremo avanti ancora a lungo, prevedo almeno fino a tutto il primo trimestre del 2021. Abbiamo messo il 50% dei dipendenti in cassa integrazione ma, anche se man mano che le commesse aumentano li stiamo richiamando a lavorare, resta il fatto che con gli attuali cali di produzione abbiamo personale in esubero. I brand fanno ordini molto più calmierati, prima si produceva sempre un tot in più da tenere a magazzino, invece ora ci commissionano solo i quantitativi indispensabili ai negozi, quelli che sanno già di vendere a colpo sicuro. E continuando così, se a marzo 2021 la cassa integrazione non verrà prorogata, saremo costretti a licenziare qualcuno – spiega Blanco -. D’altra parta è un cane che si morde la coda: il lockdown influisce sulle vendite dei negozi e queste, a loro volta, sulle commesse dei brand e quindi sulla nostra produzione. Oltretutto queste nuove chiusure arrivano proprio a novembre e dicembre, i due mesi cruciali per tutto il mondo della moda. Ci stiamo salvando solo grazie ai mercati asiatici che hanno ripreso i consumi alla grande, trainando soprattutto il lusso: l’alta moda vende di più e meglio perché il cliente acquista il brand o l’oggetto di tendenza del momento più che non il singolo prodotto in quanto tale – prosegue -. Ma finché i buyer orientali non tornano a fare acquisti in Italia non potremo tornare ai livelli pre-crisi”. Intanto, il digitale si sta rivelando una valida alternativa e anche l’ultima Fashion Week ha dato i suoi risultati: “Ora stiamo producendo i campionari della fall/winter ’21-’22 e certo, le difficoltà sono tante ma sono convinto che, nonostante questa situazione di incertezza e chiusure a singhiozzo andrà per le lunghe, poi nel 2022 la ripresa ci sarà e sarà considerevole. Già aver recuperato adesso un 10% delle perdite di inizio anno è importante, la cassa integrazione in questo senso è stata cruciale, ma servono ancora maggiori certezze e regole chiare”, conclude Fabio Blanco.
La pelle e le concerie – Tra i settori più colpiti dalla crisi c’è quello dell’industria conciaria: le ultime stime dell’Istat parlano di un calo del 32% del fatturato stagionale e del 24% del volume della produzione solo nei primi cinque mesi dell’anno, rispetto al 2019. E l’export non aiuta: i cali sono del 35% in valore e del 26% in volume. “A luglio c’è stata una leggera ripresa ma questo mese di novembre sarà pesante. Le nostre aziende, nonostante le ingenti perdite, stanno continuando a lavorare ma vivono alla giornata, non riescono a fare una programmazione. Oggi hanno le commesse, domani non si sa. In questo clima di incertezza, di schizofrenia, è tutto più difficile”, spiega a Ilfattoquotidiano.it Fulvia Bacchi, direttore generale UNIC – Concerie Italiane e amministratore delegato di Lineapelle. “Il nostro settore conta 18mila addetti, tutti super qualificati: al momento l’occupazione è stabile ma perché comunque le imprese hanno fatto ricorso alla cassa integrazione e, oltretutto, c’è il blocco dei licenziamenti. Bisogna aspettare la fine di tutto per tirare le somme anche se, comunque, sono ottimista dal momento che il costo del lavoro incide solo per un 13/14% sui bilanci delle nostre aziende. Ora aspettiamo di vedere come andrà dicembre, un mese che sarà cruciale per via degli acquisti di Natale: ci aspettavamo già una ripresa per quel periodo ma le cose stanno andando diversamente e questo secondo lockdown penalizza molto la vendita diretta – prosegue Fulvia Bacchi -. Oltretutto già da qualche anno ormai la pelletteria ha perso mercato, ad esempio con il boom delle sneakers. La nostra speranza, adesso, è che la pelle venga rivalutata in quando materiale molto durevole, ma è difficile fare previsioni senza una ripresa dei viaggi, del turismo e delle fiere. Il Made in Italy ha bisogno dei compratori esteri e, per noi, l’online non può sostituire il contatto personale, sopratutto per questi materiali”.
I dati di Confindustria Moda – Secondo le stime aggiornate, la contrazione del fatturato complessivo per il 2020 si attesta intorno al -29,7%, contro il -32,5% previsto a luglio, per una perdita totale stimata in 29 miliardi. Allo stesso modo, la raccolta ordini del terzo trimestre segna un -24,7%, contro il -37,3% registrato nell’arco di tempo aprile-giugno. Circa l’86% delle aziende del panel prevede perdite nel fatturato annuo superiori al 10%. Il 29% delle aziende interpellate vedrà un calo del fatturato compreso tra il 35% e il 50%; un ulteriore 15% del campione arretrerà di oltre il 50 per cento.
All’estero non va tanto meglio: per il 62% delle aziende italiane nessun mercato risulta ripartito, e solo un imprenditore su tre segnala un certo dinamismo da parte di alcuni Paesi strategici, ovvero Germania su tutti, quindi Francia e Cina. Per quanto riguarda l’export, infatti, nei primi sette mesi dall’anno l’andamento dell’export dei settori rappresentati da Confindustria Moda ha ceduto il -26,4%, contro il -14,0% del settore manifatturiero nel suo complesso. “In questo senso, pesa molto anche lo stop alle fiere in presenza, un’importante vetrina per le nostre imprese che quest’anno è venuta a mancare. Ma ripartiremo, ne sono certo. Ora la priorità è aiutare le aziende a non chiudere”, conclude il presidente Marcolin.