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Perù, due morti negli scontri con la polizia: si dimette il presidente Merino. E’ il secondo capo dello Stato che lascia nel giro di 6 giorni

Il capo dello Stato aveva giurato il 10 novembre: è stato spinto a lasciare dai partiti che lo avevano voluto lì dopo che si erano levate le accuse per le violenze delle forze dell'ordine anche da parte della Corte costituzione e del premio Nobel (conservatore) Vargas Llosa. Le proteste che proseguono da giorni sono causate dalla destituzione dell'ex presidente Vizcarra, ritenuta non trasparente

In meno di una settimana il Perù perde ancora il suo secondo capo dello Stato. Su spinta del Parlamento il presidente Manuel Merino ha rassegnato le dimissioni: si era insediato il 10 novembre e aveva dato vita a un governo di destra. Il suo mandato avrebbe dovuto concludersi alla fine di luglio 2021, con le elezioni generali. Ma la sua presidenza è durata solo 5 giorni. La causa sta nell’isolamento progressivo del presidente dovuto alle proteste di piazza (dovute al modo in cui era stato destituito il predecessore di Merino, Martín Vizcarra), manifestazioni nelle quali la polizia ha agito con violenza. Negli scontri avvenuti nell’ultima giornata di proteste sono morti due manifestanti, Jack Pintado, 22 anni, e Jordan Sotelo, 24. Almeno 60 i feriti, mentre le forze dell’ordine hanno arrestato un numero imprecisato di persone. La rete dei gruppi per i diritti umani ha riferito che in realtà i feriti sono almeno 112, mentre 41 persone risultano disperse. Sempre secondo quanto riferiscono questi attivisti per i diritti umani Pintado è stato colpito 11 volte anche alla testa, mentre Sotelo è stato colpito quattro volte al torace, vicino al cuore. Le violenze della polizia sono state condannate da numerose forze politiche, dall’Ufficio del difensore del popolo e dalla Corte Costituzionale. E ha smosso le coscienze anche del cittadino più illustre, lo scrittore premio Nobel Mario Vargas Llosa che ha condiviso su Twitter una sua dichiarazione in video: “Voglio scusarmi con il popolo peruviano per aver sponsorizzato due governi corrotti – ha detto tra l’altro – Due giovani sono stati assurdamente, stupidamente, ingiustamente sacrificati dalla polizia. Questa repressione – che è contro tutto il Perù – deve finire”. Poco prima Vargas Llosa aveva detto esplicitamente che Merino se ne doveva andare.

Un clima che ha portato ieri, 14 novembre, alle dimissioni di 13 ministri del governo che aveva giurato solo tre giorni prima e oggi alle “dimissioni irrevocabili” del presidente che in un discorso alla Nazione ha sottolineato che “tutto il Perù è in lutto, nulla giustifica che una legittima difesa debba provocare la morte dei peruviani. Quanto accaduto deve essere investigato profondamente dalle istanze competenti per determinare ogni responsabilità”.

Il modo con cui il Congresso aveva messo alla porta Vizcarra (indipendente) utilizzando in modo discutibile un articolo della Costituzione, aveva avviato subito una fase di grave instabilità istituzionale, pericolosa per la tenuta democratica del Paese. Merino, che già aveva guidato un primo tentativo un paio di mesi fa di destituire il capo dello Stato, aveva potuto assumere alla fine la presidenza con l’appoggio di otto dei nove partiti del Parlamento. Gli stessi che però oggi hanno fatto dietrofront e lo hanno abbandonato costringendolo a gettare la spugna. Nei giorni scorsi, inoltre l’estromissione di Vizcarra aveva prodotto un’ondata di indignazione popolare con marce e manifestazioni per vari giorni a Lima e in molte altre città peruviane.

Per molte ore rimasto in silenzio il capo dello Stato ha cercato di riportare la stabilità e la calma, ma gli è stato impossibile tanto che uno ad uno 13 ministri, fra cui quelli dell’Interno e della Difesa, si sono dimessi. Fonti giornalistiche avevano anche ipotizzato una sua fuga all’estero ma non è stato così. Come ultimo gesto Merino ha cercato in extremis di organizzare una riunione nel ministero dell’Interno con i massimi responsabili di polizia e Forze armate, che però non si sono presentati. Quando gli è giunta poi anche l’esortazione formale del Parlamento a dimettersi, ha capito che non c’era più nulla da fare se non diffondere il messaggio di dimissioni.