Una “generalizzata, prevasiva e sistematica pressione estorsiva nei confronti di imprenditori e commercianti”. In sostanza: non c’era ambito economico che la mafia foggiana abbia risparmiato. Anche con l’aiuto di un dipendente comunale, che forniva informazioni propedeutiche al racket, esercitato a tappeto dalle famiglie della Società che ‘controllano’ Foggia. In quaranta sono indagati – 38 persone in carcere, una ai domiciliari – nella maxi-inchiesta antimafia che ha fatto scattare il blitz in 15 province contro i clan Sinesi-Francavilla, Moretti-Pellegrino-Lanza e Trisciuoglio-Tolonese-Prencipe al termine dell’indagine coordinata da un pool della Direzione nazionale antimafia, Dda di Bari e Procura di Foggia e condotta da una task force composta da investigatori Sco, dalle Squadre Mobili di Bari e di Foggia, nonché del Nucleo Investigativo dei carabinieri di Foggia.

Le accuse formulate dal pool degli inquirenti sono, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, concorso esterno in associazione mafiosa, estorsione, tentata estorsione, usura, turbativa d’asta e traffico di sostanze stupefacenti, tutti aggravati dal metodo mafioso. Le ipotesi poggiano sulle intercettazioni e anche sulle dichiarazioni di tre collaboratori di giustizia: Alfonso Capotosto, che collabora da quattro anni, Carlo Verderosa, che collabora da dicembre scorso, e Giuseppe Folliero che collabora da due anni, il cui nome era stato tenuto segreto fino a oggi e che oggi compare nell’ordinanza. Agli arresti anche Federico Trisciuoglio, storico boss della Società, e Pasquale Moretti, figlio del boss Rocco, tra i plenipotenziari delle batterie foggiane. Il dipendente del Comune di Foggia, Giuseppe De Stefano, in servizio all’Ufficio ‘Dichiarazione Morte Stato Civile’ e indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, è stato arrestato con l’accusa di aver fornito ad esponenti della batteria Sinesi-Francavilla, i nomi delle persone decedute, funzionali al compimento di attività estorsive nei confronti delle agenzie funerarie oltre ad un imprenditore locale, attivo nel settore dell’edilizia, indagato per turbativa d’asta.

“Grazie a queste informazioni – ha spiegato Giuseppe Gatti, magistrato della Direzione nazionale antimafia che ha partecipato alle indagini – la mafia foggiana ha modificato le estorsioni alle imprese di pompe funebri della città. Al principio la mafia chiedeva alle agenzie di pompe funebri 500 euro al mese, mentre poi i mafiosi hanno iniziato a chiedere 50 euro a funerale. Questo sistema, che ha dato molti più soldi, è stato possibile grazie a questa gola profonda che dava l’elenco aggiornato dei decessi e, così nessuna agenzia di pompe funebri poteva sfuggire al monitoraggio della criminalità organizzata”. “La mafia foggiana è divenuta il primo nemico dello Stato”, ha sottolineato il procuratore nazionale Antimafia, Federico Cafiero De Raho. “Dal 9 agosto 2017, ovvero dal quadruplice omicidio di San Marco in Lamis – ha aggiunto De Raho – la risposta dello Stato è sempre stata più forte: da allora sono state effettuate 60 operazioni antimafia, 400 persone arrestate, decine di tonnellate di droga sequestrate e ben 67 interdittive antimafia”.

Le tre batterie sono da tempo contrapposte, sia pure a fasi alterne, in una sanguinosa guerra di mafia per il conseguimento della leadership interna ed il controllo degli affari illeciti ma, allo stesso tempo, unite nella condivisione degli interessi economico-criminali, gestiti secondo schemi di tipo consociativo. Le indagini hanno permesso di far luce sul racket esercitato dal mercato settimanale cittadino al settore edilizio, dalle imprese di servizi funebri, alle sale scommesse e alle aziende attive nel movimento terra, dall’agroalimentare alle corse ippiche. In particolare, le investigazioni svolte, anche con l’importante aiuto di massive attività tecniche, corroborate anche dalle dichiarazioni di tre collaboratori di giustizia, hanno documentato, tra le altre cose, come l’organizzazione mafiosa “abbia realizzato una generalizzata, pervasiva e sistematica pressione estorsiva nei confronti di imprenditori e commercianti di Foggia, gestita secondo un codice regolativo predefinito e condiviso, significativamente denominato come il ‘Sistema’“.

Secondo gli inquirenti, è stata costituita “una cassa comune, finalizzata al pagamento degli ‘stipendi’ per i consociati, nonché al mantenimento dei sodali detenuti e dei loro familiari, anche attraverso il sostenimento delle spese legali, così sviluppando collaudati processi di gestione centralizzata nell’acquisizione e nella ripartizione delle risorse economiche”. Quella della Società foggiana, secondo gli inquirenti, era una “riscossione” di “una vera e propria tassa di sovranità” e i clan – come già appurato nell’operazione Decim Azione, di cui il blitz odierno è una prosecuzione – registravano su un “libro mastro” la lista delle attività commerciali piegate al pizzo” nonché gli ‘stipendi’ pagati agli associati”. Secondo gli inquirenti, l’organizzazione mafiosa ha anche “sviluppato, negli ultimi anni, una significativa vocazione imprenditoriale, ed una parallela opera di infiltrazione nel settore amministrativo, orientando il sodalizio mafioso verso un più evoluto modello di mafia degli affari”.

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