La pazienza dei saharawi sembra esaurita. Il popolo di origine berbera che da decenni vive confinato in quattro grandi città-accampamento in pieno Sahara, lungo la linea di confine algerina, ha rotto il “cessate il fuoco” del 1991. Riprende così il conflitto con il Marocco di Mohammed VI, figlio del monarca che nel 1975 volle la “Marcia verde”, il trasferimento di centinaia di migliaia di marocchini verso la desertica regione meridionale. Approfittando dell’agonia, personale e politica, del caudillo Francisco Franco, Hassan II rimpiazzò la Spagna nel ruolo di colonizzatore, così in pochi mesi quello che era conosciuto come Sahara spagnolo divenne Sahara occidentale.

I saharawi attendono, da generazioni, un cenno dalla comunità internazionale, dalle Nazioni Unite. L’Organizzazione intergovernativa promette da sempre un referendum sullo status di questi territori desertici ma affascinanti, ricchi di fosfati utili all’industria chimica e con acque pescosissime che fanno gola anche alla Spagna, affacciata su quel tratto di Atlantico attraverso l’arcipelago delle Canarie.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha previsto, con una risoluzione adottata nel ’91, un’operazione specifica per il Sahara Occidentale, conosciuta come Minurso, un acronimo che racchiude un obiettivo puntuale: “Mission des Nations Unies pour l’Organisation d’un Référendum au Sahara Occidental“. Missione che persegue in realtà finalità di peacekeeping visto che, sul piano politico, in più di 30 anni non si è riusciti a fare un solo passo in avanti.

Certo non è questione diplomatica di poco conto: all’atto del “cessate il fuoco” del 1991 la via della consultazione appariva percorribile. I fatti successivi hanno dimostrato altro, il Marocco tende chiaramente all’annessione, e il Frente popular para la liberación de Saguía el Hamra y Río de Oro (Fronte Polisario), organizzazione militare saharawi, mira senza troppi fronzoli all’indipendenza.

Una terza via non trova sbocchi, come ha fatto intendere in un recente intervento pubblico Felipe González, ex premier spagnolo che ebbe un ruolo chiave nella transizione post franchista. Accusato di strizzare troppo l’occhio al governo di Rabat, l’esponente socialista ha ribadito di ritenere sì il Marocco come uno dei paesi con maggiori spazi di libertà nel mondo arabo, sottolineando tuttavia che se oggi si celebrasse un referendum lo stallo rimarrebbe intatto. Un “empate infinito” lo ha definito, lì dove un’eventuale vittoria marocchina non avrebbe riconoscimento da parte della comunità internazionale, mentre un successo del Fronte Polisario non sarebbe accettato dal Marocco.

In assenza di soluzioni politiche la crisi poggia su una miccia perennemente accesa: sono i giovani saharawi i più stanchi, rinchiusi in città dormitorio, costretti a vivere di sussistenza umanitaria, senza sogni né prospettive.

Ogni circostanza è utile per far esplodere quella miccia, l’ultimo casus belli ha trovato espressione alla frontiera di Guerguerat, sul confine con la Mauritania, dove l’esercito di Rabat ha usato le maniere forti contro attivisti saharawi che bloccavano da giorni la circolazione di beni e persone.

Il malessere delle tribù sahariane si era in verità acuito negli ultimi mesi, per due fatti politici: l’impulso crescente di re Mohammed VI al processo di normalizzazione, con l’insediamento di consolati di paesi terzi – l’ultimo è degli Emirati Arabi – ad El Aaiún, principale centro del Sahara occidentale sotto occupazione. E poi la decisione dell’Onu, di qualche mese fa, di prorogare la missione nell’area, misura interpretata come ennesimo segno di immobilismo, di incapacità del sistema internazionale a disinnescare la crisi.

Su quelle dune contese si è spiegata nel tempo larga parte della politica internazionale, Gheddafi sostenne anche militarmente la causa sahariana; la Spagna, quale paese ex colonizzatore, ha sempre guardato con interesse alla questione indipendentista. Gli Usa e la Francia, per contro, si collocarono al fianco della cancelleria di Rabat, preoccupate dell’impronta comunista del Fronte Polisario.

E ancora un ruolo centrale ha esercitato l’Algeria: ospita a Tindouf, sul suo territorio, gli accampamenti dei rifugiati, supporta economicamente e in campo militare il Fronte Polisario, taccia come provocazioni le ultime azioni marocchine a Guerguerat. Algeri guarda con rinnovato sospetto Rabat: le relazioni tra i due paesi sono un unicum nello scacchiere internazionale, ancora oggi non vi sono passaggi di frontiera tra le nazioni maghrebine. Rapporti gelidi in questa fetta di mondo, peggio che in Asia tra le due Coree.

Scendendo verso M’Hamid, dopo lo snodo Ouarzazate, i segnali già avvertono della presenza di mine lungo il confine con l’Algeria, mentre nel mezzo di un’arida hammada che si perde a vista d’occhio spuntano continue fortificazioni e caserme. Poco più a sud, si staglia il grande muro di sabbia e pietre che il Marocco iniziò a costruire negli anni Ottanta per evitare le incursioni dei saharawi, dotati di mezzi ridotti ma mossi da grande motivazione e con una approfondita conoscenza del territorio. Una barriera che corre lungo 2700 chilometri, inferiore in lunghezza solo alla Muraglia cinese, negli atti internazionali è chiamata “berm”, termine di origine olandese che tra le sue varie accezioni ha anche quella di terrapieno di sabbia. Nei territori della Repubblica araba saharawi democratica (Rasd) e nei campi di Tindouf è solo “il muro della vergogna”.

Una condizione non più sostenibile per un popolo di indole nomade, abituato a guardare oltre un ristretto orizzonte.

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