Alla conferenza delle Regioni, Fedriga propone di rivedere i 21 parametri su cui si basano le restrizioni anti-Covid. Gli altri governatori sono d’accordo. Quei criteri sono stati formulati ad aprile e predisposti il 12 ottobre dal ministero insieme alle stesse Regioni. Ora i governatori ne vogliono solo 5. Speranza: "Dialogo aperto, ma restano 221". L'Iss: "Il sistema tiene conto di ogni aspetto, dati sempre aggiornati"
Un mese dopo l’elaborazione del piano anti Covid per l’autunno-inverno, “predisposto” dal ministero della Salute insieme all’Iss e alle Regioni e su cui si basa il dpcm che ha diviso l’Italia in tre fasce di rischio, i governatori chiedono di rivedere i parametri che loro stessi hanno approvato. Utilizzandone solo cinque anziché gli attuali 21. Per le Regioni i parametri ora sono “inadeguati” e quindi “da rivedere“, nonostante meno di un mese fa li avessero condivisi. I cinque indicatori che vorrebbero sono: la percentuale di tamponi positivi escludendo tutte le attività di screening e re-testing degli stessi soggetti, un Rt calcolato sulla base della sorveglianza integrata Iss, il tasso di occupazione dei posti letto totali di Terapia Intensiva per pazienti Covid e quello dei posti letto totali per pazienti-Covid oltre alla possibilità di garantire adeguate risorse per contact-tracing, isolamento e quarantena e il numero di persone dedicate in ciascun servizio territoriale al contact-tracing. “Il dialogo con le regioni è sempre aperto. I 21 parametri indicano l’indice di rischio insieme all’Rt e determinano quali misure attuare sui territori”, la replica del ministro della Salute, Roberto Speranza.
Durante la Conferenza delle Regioni, fa sapere via Twitter il vicepresidente del Friuli Riccardo Riccardi, c’è stato un “consenso unanime” alla proposta del presidente Fedriga di rimettere ufficialmente in discussione il meccanismo scientifico pensato dagli esperti per gestire la seconda ondata della pandemia. La richiesta arriva al termine di settimane di polemiche, con Lombardia e Piemonte inserite in zona rossa insieme a Valle d’Aosta e Calabria il 4 novembre, seguite a ruota dalla provincia di Bolzano e poi da Campania e Toscana. I governatori prima avevano chiesto che fosse il governo a prendere l’iniziativa, poi hanno inveito contro le restrizioni decise per i propri territori. E ora che in alcuni casi l’andamento della curva inizia a migliorare (ma prima di due settimane dall’inizio della stretta ogni Regione dovrà restare dov’è), accusano Palazzo Chigi di ricorrere a parametri incapaci di “vedere la tendenza dei contagi” e relativi a un periodo di tempo “troppo stretto”, per dirla con le parole del presidente del Veneto Luca Zaia.
Eppure i 21 criteri epidemiologici che determinano l’inserimento di una Regione in zona gialla, arancione o rossa sono stati approvati con il consenso degli stessi governatori. Elaborati per la prima volta il 30 aprile scorso, sono divisi in tre categorie: ci sono gli indicatori sulla capacità di monitoraggio; quelli sulla capacità di accertamento diagnostico, indagine e di gestione dei contatti; e gli indicatori sui risultato relativi a stabilità di trasmissione e alla tenuta dei servizi sanitari. L’Iss, con delle slide pubblicate online nelle stesse ore della Conferenza delle Regioni, fa sapere che i dati relativi al monitoraggio “sono aggiornati” e permettono di stimare l’andamento del virus. Il sistema, aggiungono, non è troppo complesso, al contrario “tiene conto di tutti gli aspetti legati all’epidemia” e alla risposta dei sistemi sanitari. L’intero meccanismo è confluito in una circolare del ministero della Salute datata 12 ottobre 2020 che contiene in allegato il documento “Prevenzione e risposta a Covid-19”. Chi lo ha realizzato? I tecnici del ministero, l’Istituto Superiore di Sanità e il Coordinamento delle Regioni e Province Autonome. Qui vengono delineati per la prima volta gli scenari di rischio a cui sarebbe stato esposto il nostro Paese durante l’inverno. E poche settimane dopo è arrivato il dpcm che ha formalizzato ulteriormente il meccanismo, distinguendo la zona gialla da quella arancione – caratterizzata “da uno scenario di elevata gravità e da un livello di rischio alto” – e da quella rossa, considerata “a rischio massimo”.
Le conseguenze, però, non sono piaciute a molti. Dal presidente facente funzione della Calabria, Nino Spirlì, secondo cui la sua Regione è stata chiusa “con i numeri della tombola“, fino al governatore Vincenzo De Luca. Che, dopo l’inserimento in zona rossa della Campania, ha tuonato contro Palazzo Chigi invocando un esecutivo di unità nazionale. “Noi eravamo per chiudere tutto ad ottobre”, aveva spiegato. Ma “il governo ha fatto un’altra scelta”, facendo “perdere due mesi preziosi” con “provvedimenti sminuzzati”. Polemiche dovute anche al fatto che il ministero della Salute ha messo in dubbio i dati sul monitoraggio della pandemia arrivati nel corso delle ultime settimane dalle Regioni. Ispettori sono arrivati a Napoli, mentre a Genova la procura ha aperto un fascicolo per ora senza ipotesi di reato. I governatori, chiarisce ora il ligure Giovanni Toti, chiedono un incontro urgente con il governo per “rivedere in un’ottica di semplificazione i parametri che sono stati elaborati nella prima fase della pandemia procedendo ad un aggiornamento delle indicazioni sull’utilizzo dei test rapidi antigenici e del test di biologia molecolare e alla modifica degli indicatori per il monitoraggio ai fini della classificazione“. “L’impressione che ho”, aggiunge Acquaroli delle Marche, “è che da qui ad aprile, se rimarrà lo schema giallo arancione rosso, c’è il rischio di un’epidemia che si ferma e riparte più volte, che fa su e giù con la curva”. Acquaroli vorrebbe che si evitasse “un continuo rincorrersi di ‘televenerdì’, puntata settimanale che vede cittadini e amministratori capire come sono classificati: credo sia una percezione e una visione molto triste della politica e del livello delle istituzioni in Italia”. Occorre, ha concluso, “mantenere il giusto equilibrio nelle scelte e che siano condivise e rapportate e ai territori”.