È dal 1992 che Gianni Petrucci è presidente. Di una o addirittura di tutte le Federazioni, poco cambia. Prima della FederBasket, poi del Coni, adesso di nuovo della pallacanestro italiana: è appena stato rieletto per altri quattro anni, con oltre il 90% dei consensi, ovviamente da candidato unico (in Fip non ha mai praticamente avuto un rivale). Si parla tanto del ventennio di Malagò (che punta dritto al suo terzo mandato consecutivo, riforma di Spadafora permettendo), ma quello di Petrucci può a tutti gli effetti essere considerato un trentennio. Lo raggiungerà nel 2022, quando sarà ancora in sella alla sua amata Federazione Italiana Pallacanestro, a cui nel corso del tempo ha dato tanto, e forse ha ricevuto ancor di più. La sua vera passione è sempre stata il calcio: un’esperienza da segretario generale della Figc, una parentesi persino da vicepresidente esecutivo della Roma, lui, tifoso sfegatato della Lazio. Ma è il basket che gli ha dato da vivere, ha accompagnato la sua ascesa alla guida dello sport italiano: ben quattro mandati alla guida del Coni dal ’99 al 2013, più di tanti altri, più di quanto previsto anche dalla legge, grazie alla riforma Pescante (suo predecessore, rivale, ma pure testimone di nozze) che nel 2004 ne azzerò il conto in corsa. Poi, quando è finita la sua era e per un attimo sembrava anche la sua fortuna politica, a causa della rovinosa sconfitta del suo “delfino” Pagnozzi contro Malagò, il basket l’ha riaccolto, restituendogli la poltrona che gli aveva tenuto in caldo per anni. E ancora oggi lo conferma.
Democristiano fino al midollo, cresciuto nel mito di Giulio Andreotti e sotto l’ala protettrice di Franco Marini, Petrucci resta saldamento al comando nonostante il basket italiano non se la passi benissimo. Il campionato, dopo i fasti degli Anni Novanta, ha imboccato una crisi forse irreversibile (e il Covid rischia di essere il colpo di grazia finale). La nazionale pure: la miglior generazione della storia del basket azzurro, quella di Belinelli &C., ha vinto nulla, non si è nemmeno qualificata alle Olimpiadi, nonostante il Preolimpico organizzato in casa a Torino nel 2016 a suon di milioni (pubblici). Certo, non solo per colpa sua: alla fine in campo le partite le perdono i giocatori, al massimo gli allenatori. Ma il presidente ne risponde politicamente: Tavecchio, tanto per fare un esempio, per una cosa del genere si è dimesso (anche se ora prova ha rientrare dalla finestra, come raccontato da Il Fatto). Petrucci è sempre lì.
In questo però non è diverso da tanti suoi colleghi presidenti, inossidabili, anzi in certi casi quasi imbalsamati, perché nonostante gli anni, le rughe che avanzano, i mandati che si accumulano uno dopo l’altro, continuano a guidare le proprie federazioni come feudi quasi personali. Nessuno riesce a schiodarli, a causa di un sistema con poca democrazia interna che non permette il cambiamento. Non ci è riuscito nemmeno il ministro Spadafora, che nella sua famosa riforma dello sport, ancora in fase di gestazione, aveva inserito un articolo per mandarli a casa, cancellando la “fase transitoria” della legge 8/2018 con cui l’ex ministro Lotti aveva regalato a tutti un ulteriore mandato “extra”, oltre i tre fissati per legge. I presidenti però sono stati più furbi, e mentre la riforma arrancava e rimaneva impantanata fra i veti incrociati delle varie forze politiche (lo è tutt’ora: c’è tempo fino 30 novembre per approvarla o non se ne farà più nulla), loro si sono fatti tutti rieleggere, sfuggendo alla tagliola. Compreso Petrucci, il volto, se ce n’è uno, di questa piccola “casta” dei presidenti federali. “Sarà un quadriennio di cambiamento e rivoluzione”, ha promesso davanti alla sua assemblea elettiva. Una rivoluzione che va avanti dal 1992.