Lo avevano cercato e “agganciato”. Fino a ottenere la sola cosa di loro interesse: ritrattare le accuse davanti al giudice di fronte al quale, con le sue denunce, aveva spedito due appartenenti al clan. Così la mafia foggiana prova a scampare le condanne. Minacce e capacità di intimorire chi aveva tenuto la testa alta e spiegato per filo e per segno agli inquirenti le richieste di pizzo ricevute dalla Società. E di fronte agli sgherri dei clan erano pronti non solo a rimangiarsi tutto, ma anche a pagare per il “danno arrecato al sodalizio”. Michele Carosiello, uno dei 39 arrestati nella maxi-operazione antimafia contro i clan di Foggia, spiegava ad Alessandro Aprile, anche lui finito in carcere su ordine del gip di Bari Francesco Agnino, d’essere andato alla ricerca di uno dei commercianti di Cerignola che “aveva osato denunciare l’estorsione subita” facendo arrestare Massimiliano Russo e Giuseppe Perdonò.
“Si è messo a piangere – racconta Carosiello, intercettato dagli investigatori – Gli stava prendendo una cosa (un malore, ndr) Insomma… nella buona amicizia e tutte cose bello garbato e poi al processo, mi ha promesso… che non… che ritratta… bravo, deve dire: ‘Io non so neanche chi sono, io non li ho mai visti, a me hanno fatto tutto gli sbirri ed hanno detto a me metti nella denuncia ma io a questi ragazzi, da me non sono mai venuti, neanche li conosco”. Il commerciante, ricostruisce il gip Agnino, era “evidentemente intimorito” e, oltre alla promessa di cambiare versione in aula, aveva anche aggiunto di “essere anche disposto a consegnargli la somma di 5mila euro di risarcimento per il danno arrecato al sodalizio, a seguito dell’arresto dei due accoliti, scaturito dalle denunce sporte anche da lui”.
Uno “stato di omertà assoluta”, lo chiama il giudice per le indagini preliminare, che è fotografato anche dal “limitatissimo” numero denunce, a conferma “della totale soggezione di larghe fasce della popolazione, indotte a subire silenziosamente i torti e le angherie” della Società foggiana. Clan che per “piegare la resistenza” e “indurli a pagare il pizzo” non hanno esito a ricorrere “a intimidazioni” con una serie di bombe, tra gennaio 2019 e lo scorso aprile. Il pentito Carlo Vederosa lo ha spiegato chiaramente ai magistrati: “Qua le persone pagano e vengono buttate le bombe”. Una sorta di abitudine: “Siamo andati sempre a parlare o a sparare dietro le serrande”.