Dove hanno agito, le Usca sembrano essere riuscite a ridurre la pressione sugli ospedali. Ma non in tutte le regioni sono effettivamente operative. Per esempio, tre di quelle più colpite dalla seconda ondata hanno un tasso di copertura molto basso.
di Leonzio Rizzo, Massimo Taddei e Gilberto Turati (Fonte: lavoce.info)
Unità speciali per il coronavirus
Con il decreto legge n. 14 del 9 marzo 2020, in concomitanza con il Dpcm che decretava il lockdown, il governo ha istituito le Unità speciali di continuità assistenziale (Usca). L’iniziativa è lodevole: assicurare lo svolgimento dell’attività ordinaria ai medici di medicina generale (così come ai pediatri e ai medici di continuità assistenziale) e, nel contempo, garantire la diagnosi, la presa in carico e il monitoraggio delle infezioni da Covid-19. L’obiettivo finale è altrettanto chiaro: sgravare gli ospedali dall’afflusso di pazienti con sintomi lievi, che quindi possono essere curati a casa.
Il meccanismo pensato dal governo è presto detto: il medico di medicina generale (o il pediatra o il medico di continuità assistenziale) fa un triage telefonico dei pazienti e comunica alla Usca il nominativo e l’indirizzo dei pazienti affetti da Covid-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero. L’Unità li “prende in carico”: può perciò effettuare visite domiciliari, prescrivere farmaci ed eventualmente proporre il ricovero in ospedale per i casi che dovessero risultare gravi. Perché il meccanismo possa funzionare servono sia la collaborazione dei medici di medicina generale, sia l’effettiva costituzione delle Usca.
Sempre il Dl 14/20 istituisce “presso la sede di continuità assistenziale già esistente una unità speciale ogni 50 mila abitanti per la gestione domiciliare dei pazienti affetti da Covid-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero”. Considerato il numero di abitanti, è quindi prevista la costituzione sul territorio nazionale di 1.200 unità. Per finanziarle sono stati stanziati 61 milioni di euro con il decreto legge n. 34 del 19 maggio 2020. Visto che sono previste 1.200 unità, ciascuna dovrebbe ricevere poco più di 50 mila euro. I soldi stanziati dovrebbero essere utilizzati sia per coprire l’onorario dei medici (40 euro lordi l’ora) sia per fornire i beni necessari all’espletamento del servizio (tute, guanti, mascherine, tamponi, mezzi di trasporto). Il contratto di lavoro è trimestrale, eventualmente prorogabile fino alla fine dell’emergenza.
Regioni virtuose e regioni in ritardo
La maggioranza delle regioni è riuscita a deliberare le Usca entro i tempi stretti indicati dalla legge nazionale (20 marzo 2020). La loro effettiva realizzazione, con la costituzione delle equipe dedicate, però, ha subito ritardi differenziati nelle varie regioni.
Il problema principale è che le Usca si formano con l’adesione volontaria del personale medico. Non vi è alcuna attività di reclutamento, quindi in molti casi il numero di adesioni non è stato sufficiente a coprire i posti richiesti. Inoltre, sono spesso mancati i mezzi di trasporto e i dispositivi di protezione individuale (mascherine, tute) necessari: nel pieno della prima ondata già mancavano per gli ospedali, figuriamoci per le Usca.
Poi però la prima ondata è finita e il tempo era propizio per andare avanti sulla strada tracciata con il Dl 14/20. Invece, le Usca – che potevano costituire un modo per rafforzare i presidi territoriali e sviluppare le attività di tracciamento – sono rapidamente uscite dal radar della politica. Sulla base dei pochi dati a disposizione, in alcune regioni italiane la loro attivazione durante la prima ondata sembra essere stata accompagnata da una riduzione del numero di pazienti ricoverati. In termini puramente descrittivi, la figura 1 mostra l’andamento dei pazienti positivi in isolamento domiciliare e dei ricoverati in alcune regioni italiane, messi in relazione con l’attivazione delle Usca.
La figura mostra solamente le unità speciali effettivamente operative sul territorio, escludendo quelle che, pur essendo state costituite, in molte regioni di fatto non erano in funzione. Si nota come dopo la loro attivazione, il numero dei pazienti in isolamento domiciliare abbia continuato a seguire l’evoluzione del numero dei positivi, mentre il numero di pazienti ospedalizzati sia diminuito.
Anche in una regione come la Lombardia (figura 1a), che durante la prima ondata ha avuto seri problemi di saturazione degli ospedali, il ruolo delle Usca sembra essere stato rilevante sull’andamento dei ricoverati, nonostante al 28 aprile, il tasso di copertura delle unità speciali in Lombardia fosse inferiore al 20 per cento. A un aumento dei pazienti in isolamento domiciliare coincide infatti una riduzione dei pazienti ospedalizzati, solo in parte legata all’aumento del numero di positivi.
Chiaramente, nessuno è in grado di dire cosa sarebbe successo con una copertura maggiore e se nel mezzo della prima ondata si sarebbe potuto fare di più. Trend simili a quelli della Lombardia si sono osservati in Veneto, che però subito aveva dato priorità alle cure domiciliari rispetto all’ospedalizzazione, in Emilia-Romagna, Piemonte e Marche. In tutte e quattro le regioni il tasso di copertura delle Usca alla fine della prima ondata era più alto che in Lombardia, ma sempre piuttosto lontano da quanto richiesto come standard nazionale.
Il numero delle unità speciali è aumentato durante l’estate, con molte regioni che si sono avvicinate allo standard di una Usca ogni 50mila abitanti e una copertura media nazionale del 49 per cento al 21 luglio.
Occorre ricordare che un alto tasso di copertura (figura 2) non corrisponde necessariamente a un largo ricorso alle cure domiciliari: non tutte le Usca, infatti, sono effettivamente operative e il loro funzionamento e la loro efficacia variano da regione a regione. Si può però evidenziare che tre delle regioni che più soffrono la seconda ondata hanno un tasso di copertura molto basso. Si tratta di Piemonte (41 per cento), Lombardia (35 per cento) e Campania, che ha addirittura istituito solo il 15 per cento delle unità necessarie.
Perché non si è perseguita questa strada? È possibile avere maggiori informazioni sulle unità speciali effettivamente operative? Quali sono i problemi organizzativi che hanno bloccato o ritardato l’attivazione delle Usca? Non potrebbero queste ultime giocare un ruolo anche nella gestione dei cosiddetti “hotel Covid” di cui si parla in questi giorni?
Sono tutti quesiti che attendono una risposta rapida da parte del governo (che deve in qualche modo confermare l’idea di assistenza territoriale che ha in mente) e da parte delle regioni (che le Usca devono attivare). Risposte tanto più necessarie visti alcuni recenti avvenimenti. Da un lato, in una regione come il Lazio che aveva coinvolto i medici di medicina generale nella gestione dei pazienti sul territorio, una recentissima sentenza del Tar del Lazio afferma che “i medici di Medicina generale risultano investiti di una funzione di assistenza domiciliare ai pazienti Covid del tutto impropria, che per legge dovrebbe spettare unicamente alle Unità speciali di continuità assistenziale (Usca)”. Dall’altro i privati, in una regione come la Lombardia, stanno cominciando a offrire – ovviamente a pagamento – quello che le Usca dovrebbero fornire gratuitamente.
A perderci, in entrambi i casi, sono i cittadini.