Nel suo ultimo post, Roberto De Vogli si domanda chi sono i “competenti” in grado di parlare autorevolmente della crisi sanitaria. Il tema è cruciale: “ascoltare gli scienziati… significa non solo salvare migliaia di vite umane, ma anche l’economia”. Purtroppo, dopo undici mesi di pandemia, il nostro sistema politico-mediatico ancora non distingue i medici (virologi, immunologi, clinici), che curano i malati, dagli epidemiologi (matematici, statistici, scienziati sociali), che studiano il diffondersi dell’epidemia. Con qualche eccezione (Report, PiazzaPulita), i talk show continuano a fare domande sbagliate a esperti sbagliati. Nella fatale confusione che ne deriva la classe politica cela la sua inadeguatezza.
Il primo equivoco è l’equazione “camici bianchi = esperti”. Esperti di cosa? I medici studiano l’effetto del virus sul corpo umano, non i fattori che ne facilitano la propagazione. Ma il Ministro Roberto Speranza ha riempito il Comitato Tecnico Scientifico di clinici: Locatelli (pediatra ematologo), Bernabei (geriatra), ecc. E i talk show chiedono lumi – non sul virus, sulla pandemia! – a Bassetti, Zangrillo, Gismondi… che non saprebbero maneggiare un modello epidemiologico neanche con l’aiuto di Manitù.
Ciò detto, credo che abbia l’autorevolezza per parlare di pandemia una platea più vasta dei soli “esperti in salute globale” (epidemiologi) invocati da De Vogli. Tanto per cominciare, un semplice criterio meritocratico suggerirebbe di emarginare chi finora le ha sbagliate tutte, e di valorizzare chi le ha azzeccate tutte. È un criterio fattuale, diretto. Non sembra difficile da applicare. Ma a giudicare da quel che succede alla Regione Calabria, a “Otto e Mezzo”, o a “L’aria che tira”, la meritocrazia non abita qui.
Quanto ai cv (indicatore indiretto), molti economisti, ricercatori, scienziati hanno competenze matematiche, statistiche, sociali tali per cui – se studiano il problema – possono intervenire utilmente nel dibattito. Ma la conoscenza migliore nasce dalle catene del “sapere condiviso”.
Idealmente: 1. medici/biologi → 2. epidemiologi → 3. economisti → 4. politici, dove gli esperti a sinistra producono output che sono input per quelli a destra. Gli epidemiologi (2) inseriscono nei loro modelli le caratteristiche del virus rilevate da (1) medici e biologi (per esempio, la trasmissione asintomatica del Covid-19), assieme ad altri parametri: età e densità della popolazione, comportamenti sociali, efficacia delle reti territoriali di medicina preventiva, inquinamento atmosferico, clima, mobilità, modalità del trasporto pubblico, ecc. Stimano la forza dei vari canali di contagio, e i diversi scenari epidemici al variare delle politiche.
Ma i modelli tratti dai manuali di epidemiologia sono spesso poco realistici; né stimano i costi delle diverse politiche. Gli economisti (3) perciò li adattano un po’ (alla realtà), usano gli output come input nei modelli macroeconomici, e selezionano, a parità di impatto sanitario, le strategie meno costose. Le segnalano infine ai politici (4) per le scelte finali (che includono altre valutazioni).
Cosa c’è dietro la freccetta che va dagli “economisti” (scienziati sociali) ai “politici”? Come avviene la trasmissione del sapere dalla società (università, centri studio, riviste, media) alla politica? Qualche settimana fa, pranzando con il senatore Alberto Bagnai, egli mi ha confessato di non trovare il tempo “neppure per incontrare i parlamentari leghisti”, dovendo saltare da una commissione o evento all’altro: figuriamoci se la politica ha il tempo di studiare.
Quanto al governo, la gente vive nell’illusione che un Ministro non dev’essere competente, tanto nei ministeri “ci sono i tecnici” che supportano le scelte. In realtà in Italia questo supporto è debolissimo.
Primo: i “tecnici governativi” sono in realtà spesso dirigenti con competenze medie, senza formazione post-laurea di alto livello, la sola in grado di fare la differenza. Le assunzioni, se non avvengono per raccomandazione, riguardano quasi sempre dei giuristi: attenti alla forma, ma poco incisivi nel merito. Le carriere hanno logiche simili. E così arriva il Piano Pandemico obsoleto, solo sulla carta, che costringe l’Italia a improvvisare sul Covid.
In secondo luogo, i “competenti” sono specializzati: perciò è impensabile che due, tre tecnici (salvo il Mef) di alto livello possano “coprire” la varietà di problematiche che un ministero deve affrontare.
In terzo luogo, fossero anche in venti o trenta, non potrebbero comunque da soli inventare soluzioni adeguate alle conoscenze e alla complessità dell’era moderna. Ma venti esperti, insieme, possono individuare e veicolare al governo le migliori soluzioni elaborate nel mondo. Nei nuclei tecnici della Pa, l’assegnazione dei ruoli in base alle competenze è fluida; e l’interazione fra esperti ne moltiplica l’efficacia. Inoltre, il “livello politico”, per recepire idee di qualità, ha bisogno che esse vengano semplificate, abbreviate, presentate, discusse, emendate più volte, nei luoghi, modi, e tempi “giusti”, integrate da indicazioni su costi, benefici, e possibili alternative. Cose che organismi estemporanei – del genere task-force Colao – non sono in grado di fare.
L’Italia è storicamente incapace di darsi un buon governo: diventa chiaro nei momenti difficili. Andiamo in guerra sempre impreparati, costringendo chi è in prima linea all’eroismo. Il problema è riconducibile all’incapacità (mancanza di volontà) del sistema politico di creare una Pa capace di (pagata per) “pensare” e progettare soluzioni di qualità. Il Covid aggrava i costi della scarsa cultura meritocratica. I “tuttologi” (in senso buono: politici, giornalisti) sono spesso incapaci di svolgere il loro compito più importante: selezionare gli esperti giusti, strutturarne il contributo in modo che sia valorizzato, ed avvalersene.