Viviamo in otto in tre stanze, se ci contagiamo come facciamo a isolarci?”. Mara è una delle abitanti delle case popolari di via Porpora, periferia est milanese. In questi palazzi centinaia di persone vivono nel raggio di pochi metri quadrati. Qui sono in tanti a non sapere cosa fare in caso di contagio in famiglia. L’isolamento è impossibile quando si vive in case piccole e sovraffollate. Una situazione simile a quella di via Arquà. “Ci sono famiglie numerose che vivono in una o al massimo in due stanze”, spiega Maria, che da 40 anni vive nel palazzo. “L’unico rifugio che abbiamo – scherza mentre riordina i disegni che i bambini le hanno dedicato – è quello antiaereo della Seconda guerra mondiale che c’è nel cortile”. Per chi vive in tre in una sola stanza che fa da cucina, camera da letto e salone l’isolamento risulta complicato. “Cosa potrei fare se una delle mie figlie diventa positiva – si chiede una signora d’origine marocchina che vive con le sue due bambine in una stanza – dormo fuori sul balcone?”. E c’è anche chi suggerisce una soluzione: “Ci sono tanti alloggi sfitti a Milano, si potrebbero usare quelli”.

“Nelle periferie milanesi pochissimi possono isolarsi a casa loro” spiega il medico di base Irven Mussi che lavora in via Palmanova. Dopo che il sistema di tracciamento milanese è saltato rischia di saltare anche l’isolamento. “Non ci meravigliamo se il virus corre nelle periferie” avverte il dottor Mussi che durante la prima ondata ha lavorato al Covid Hotel del Michelangelo, la struttura che ha ospitato oltre cinquecento pazienti fino alla sua chiusura a luglio. Per mesi l’unica struttura rimasta aperta in città era l’hub di Linate gestito dalla Croce Rossa. Il primo bando di Ats è andato deserto e soltanto a inizio novembre sono state attivate due nuove strutture per un totale di 160 posti. Si sono riempiti in pochi giorni e in questi giorni dovrebbe entrare in funzione un nuovo Covid Hotel.

Ma alla paura del contagio si aggiunge la difficoltà di non avere un lavoro. In questi palazzi sono tante le persone che lavoravano come lavapiatti, baristi o addette alle pulizie senza un vero contratto. Sono stati i primi a perdere il lavoro e da marzo non hanno avuto diritto ad alcun sussidio. C’è chi puliva le stanze di un affittacamere per turisti che non ha mai riaperto. O chi come il marito di Mara continua a mandare curriculum da marzo. “Ma chi si prende la responsabilità di assumere una persona in questo momento?”. I bonus e gli aiuti del governo sono solo un miraggio per chi lavorava nell’economia informale. Qualcuno invoca un “reddito di esistenza”. Nel frattempo, l’unico aiuto concreto in questi palazzi è arrivato dalle Brigate Volontarie che dall’inizio dell’emergenza hanno raccolto e distribuito aiuti alimentari alle famiglie. Nei palazzi di via Arquà e via Porpora, i ragazzi delle brigata “Lena-Modotti” non hanno mai smesso di fare le consegne: “Con l’arrivo della seconda ondata le persone che ci chiedono un piccolo aiuto sono aumentate”, spiega in una nota la brigata che negli ultimi giorni ha lanciato un appello per raccogliere cibo da distribuire. “Non è assistenzialismo – precisano alcuni membri della brigata – ma lavoriamo anche per riallacciare i legami sociali dando un aiuto anche psicologico a chi ha bisogno”. È nato perfino un dopo-scuola per i bambini del quartiere. “Qui le istituzioni sono lontane – conclude Maria – vorrei invitare Beppe Sala a trascorrere una mezza giornata tra di noi per capire come viviamo”.

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