Mentre in tutti i Paesi del G20 muoiono ogni anno circa 11mila persone per eventi meteorologici estremi legati al cambiamento climatico, con perdite economiche nell’ordine di 130 miliardi di dollari, le maggiori potenze mondiali non si muovono abbastanza velocemente. Continuando, per esempio, a finanziare nella maggior parte dei casi (sedici Paesi) i combustibili fossili più delle rinnovabili e perdendo un vantaggio ambientale. Non fa eccezione l’Italia. Lo rivela il rapporto della rete Climate Transparency, costituita da quattordici istituti di ricerca e università e precedentemente noto come Brown to Green Report. Si tratta della rassegna annuale più completa al mondo dell’azione per il clima dei Paesi del G20 e della loro transizione verso un’economia a emissioni nette e spiega che, per la prima volta, le emissioni di gas serra provocate dai sistemi produttivi dei Paesi del G20 hanno subìto una contrazione, anche se leggera. Nel 2019, dunque non per effetto della pandemia. Secondo la rete, questo è dovuto alla diminuzione del consumo del carbone, ma anche alla quota delle rinnovabili che negli ultimi cinque anni cresce ovunque, tranne che in Italia (che pure aveva acquisito un vantaggio negli anni scorsi).
Il prezzo del cambiamento climatico – E il nostro Paese proprio non può permetterselo, dato che è il terzo del G20 (facendo la media degli ultimi venti anni) per morti legate ad eventi climatici estremi. Perdiamo 997 persone all’anno in questo modo e circa 1,4 miliardi di euro. Al primo posto, per le vittime, c’è la Russia con 3mila vite umane spezzate e la Francia, che ne conta oltre mille. La revisione si basa su 100 indicatori per l’adattamento, la mitigazione e il finanziamento e mira a rendere trasparenti le buone pratiche, ma anche le lacune che ciascun Paese dovrebbe colmare. Il dossier di quest’anno si compone di due parti: la valutazione politica annuale basata sui dati degli anni precedenti e un’analisi degli impatti della crisi legata al Covid-19 e degli sforzi di ripresa dei Paesi rispetto ai loro obiettivi ambientali. Ammonta a 130 miliardi di dollari l’anno la perdita economica per i Paesi del G20. E, se non ci sarà un’inversione di rotta sostanziale, le cose peggioreranno. La riduzione delle precipitazioni per il nostro Paese è già un problema serio con l’aumento della temperatura stabile a 1,5 gradi centigradi, seguita dal tema della siccità, sia per quanto riguarda i periodi, sia sul fronte della vastità delle aree coinvolte, entrambi destinati ad aumentare insieme alla temperatura del pianeta. “Con un aumento di 1,5 gradi centigradi – spiega il rapporto – sono previsti impatti più gravi per Australia, Brasile, Francia, India, Indonesia, Italia, Messico, Turchia, Arabia Saudita e Sudafrica”. A due gradi, spiega il report, l’Italia sarebbe pericolosamente esposta non solo al problema della siccità, con conseguenze devastanti sull’agricoltura, ma anche a quello delle ondate di caldo. Nel 2019, il nostro Paese aveva già dovuto affrontare un anno difficile tra nubifragi, frane, siccità e trombe d’aria. Si stima che dall’inizio del 2020 e fino a settembre, questi eventi abbiano superato quota mille.
Le emissioni del G20 – In questo contesto mondiale, però, un segnale di speranza c’è. Per la prima volta, le emissioni di gas serra provocate dai sistemi produttivi delle principali economie del mondo sono diminuite, anche se solo dello 0,1%. Nel 2018 erano cresciute dell’1,9% e, anche nei dieci anni precedenti, l’aumento medio era dell’1,4% all’anno. Potrebbe essere un’inversione di tendenza, considerando che stima per il 2020 una contrazione del 7,5% causata dalla recessione ma, avverte il rapporto, bisogna fare i conti con una ripresa dell’economia e delle produzioni e, quindi, con una ricrescita delle emissioni che porterà inevitabilmente a non centrare gli obiettivi previsti dall’Accordo di Parigi. Tutto questo, a meno che non si metta in atto una trasformazione che porti a restare quanto più vicini possibile all’aumento della temperatura media globale di 1,5 gradi centigradi, al massimo 2, rispetto ai livelli pre-industriali. In questo secondo caso, stiamo già parlando di una temperatura che avrebbe conseguente devastanti in diverse aree del mondo, come descritto nel rapporto Global Warming, presentato nel 2018 dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc). L’Ue punta ad aumentare il suo obiettivo di riduzione delle emissioni ad almeno il 55% ma, secondo il rapporto, bisognerebbe arrivare ad almeno il 65%.
Le cause – Il calo delle emissioni è dovuto principalmente ad alcuni progressi fatti in settori chiave. L’intensità di carbonio, emissioni di gas serra per unità di energia finale consumata e di valore aggiunto prodotto, diminuisce in seguito all’incremento della quota di energia da fonti rinnovabili o di combustibili fossili a minore contenuto di carbonio e, nel 2019, quella dell’approvvigionamento di energia primaria è diminuita dello 0,8%, mentre il consumo di carbone è calato del 2%. Oltre all’Italia, anche Canada, Francia, Germania e Regno Unito hanno fissato obiettivi per l’eliminazione graduale del carbone. Così, se le emissioni di Co del settore energetico sono diminuite del 2,4%, quelle legate al settore agricolo hanno registrato un calo dello 0,5% (ma crescono quelle nei trasporti e nell’industria). Allo stesso tempo, le rinnovabili crescono quasi ovunque: sono al 27% della produzione di energia (nel 2018 erano al 25%) e nel 2020 si prevede arrivino al 28%.
I punti critici – Eppure la produzione di energia primaria deriva ancora per l’82% dai combustibili fossili, in quanto il calo del consumo del carbone viene compensato dall’aumento di quelli di petrolio e di gas, rispettivamente dell’1 e del 3%. E, comunque, dieci Paesi del G20 stanno ancora fornendo supporto al carbone, dieci sono quelli che finanziano il settore del gas e nove il petrolio. E se 13 Paesi hanno introdotto politiche per limitare (parzialmente) il finanziamento pubblico al carbone, solo Brasile, Francia e Germania hanno restrizioni in vigore per petrolio e gas. Il risultato è che i Paesi del G20 nel 2019 hanno pagato 130 miliardi di dollari in sussidi ai combustibili fossili (erano 117 nel 2018), cifra che potrebbe ancora aumentare attraverso le risorse fornite dai piani di ripresa post Covid-19. A fare da monito quanto già accaduto prima della crisi: 14 Paesi hanno salvato le loro compagnie aeree nazionali senza porre condizioni climatiche (solo la Francia lo ha fatto), mentre altri sette stanno fornendo supporto incondizionato all’industria automobilistica (solo Germania e Francia hanno dettato condizioni ambientali ben precise).
Il monito all’Italia – Neppure l’Italia fa eccezione. Le emissioni di gas serra nel nostro Paese sono diminuite del 17,5% tra il 1990 e il 2017 e arrivano soprattutto dai settori dei trasporti (31%), elettrico e del riscaldamento (26%) ed edilizio (19%). I combustibili fossili costituiscono ancora il 79% del mix energetico italiano, mentre solare, eolico, geotermico e biomasse rappresentano l’11,7% della fornitura di energia (la media del G20 è solo del 6,4%). E se è vero che l’Italia produce sempre più energia elettrica a da fonti rinnovabili (che rappresenta il 41,4% del mix energetico), il gas resta la fonte di energia principale (siamo al 48%), mentre carbone e petrolio insieme rappresentano l’11%. Inoltre, la quota di energie rinnovabili nella produzione di energia negli ultimi cinque anni è cresciuta ovunque, ma non in Italia, tra i Paesi in cui si investe di più sulle fossili che sull’energia pulita. Ed è per questo che nel report si invita il nostro Paese ad adottare una strategia a lungo termine, che guardi a chiari obiettivi da raggiungere nei vari settori per arrivare entro il 2050 alla neutralità climatica”.