Cultura

Lo Scaffale dei libri, la nostra rubrica settimanale: diamo i voti agli anni ’90/2000 di Avallone, Falco e I Trentenni

di Davide Turrini e Ilaria Mauri

Con Silvia Avallone che dobbiamo infine dire (fare, baciare, scrivere lettere, testamento)? Giunta al quarto romanzo vuole da sempre travolgerti con romanzi, fiumane, gorgoglii di fatti personali, incontri, scontri, pulsioni, usando la pancia e spesso la tigna. Un attitudine caratteriale forte, scontrosa, distanziante, introversa, quella delle sue paladine del broncio, dell’incazzo, della fotta giovanile femminile pre/durante/post adolescenziale che qui, in Un’amicizia (Rizzoli), si propaga incupita su un’asse temporale tripartita (2000; 2003-2006; 2019-2020). Elisa trasandata, timida, scostante, vestita come una punk di risulta, poco convinta e silenziosamente dilaniata da una situazione genitoriale disastrosa (genitori separati, presenti ma assenti, ping pong dei figli tra Biella e una località del levante ligure, detta T.), incontra durante le scuole superiori Beatrice, figlia di famiglia ricca, sicura di sé, truccata come un albero di natale per veleggiare superiore in mezzo al guado di un prossimo inferiore. La sempiterna amicizia oltre le classi socioeconomiche srotolata nel teatrino di provincia urbana tra relazioni, cuori, corpi infranti, tremanti, frementi, poi si sposta nella sempiterna BolognauniversitariaPiazzaVerdicoibonghi con l’Italia campione del mondo in piazza Maggiore. Elisa scriverà il suo romanzo dopo aver letto poesie di Sereni a 14 anni (gancio pure per l’amore con Lorenzo)? Beatrice diventerà influencer di successo planetario ideandosi celebrities quando ancora il pc era un cassone abnorme con il collegamento gracchiante di oltre un minuto? Le risposte (etiche? identitarie? culturali?) sono nelle oltre 450 pagine di Un’amicizia dove si adotta sì il registro sensoriale sovraesposto della passionalità, della frenesia, dello scatto improvviso dei gesti, della crescita urticante in mezzo al dolore del tradimento umano, ma che allo stesso tempo si riproduce attraverso un distraente meccanismo di sintassi che proprio non riusciamo a digerire. Una particolare strutturazione della frase che accartoccia, devia, scotenna la scorrevolezza della lettura in continuazione. Un vezzo ieratico, solenne, adatto al poema (Il libro dei vent’anni?), richiamo letterario alto che stride, affatica, cigola. Esempi concreti con complementi oggetti volanti o dopo la virgola l’inutile. “In un impeto di maturità capisco che è arrivato il momento di ricordare, e affrontarti” (pag.13) “Con la chioma magnifica, il rossetto rosso, le unghie viola; mi abbracci e ridi forte. Non ce la faccio, a vederci” (p.14) (“non ce la faccio virgola a vederci” non si può proprio leggere). “L’intero litorale, battevo” (p.83-84). Verso il fondo: “Li cercavo, Lorenzo, Beatrice, sul web” (p.372). Un uso della punteggiatura che crea un respiro contorto, un’ascia contundente, reiterata, ingombrante che ad un certo punto si trasforma anche nella coppia virgola/due punti: “Compresa la famiglia perfetta al tavolo centrale che si era voltata, con garbo, a compatire quella infelice, crollata: la mia” (98); “Mi misi in piedi e avvertii l’ingombro del mio corpo, della mia presenza: arcana, rischiosa” (112). Come se non bastasse c’è l’ondivaga presenza di un io narrante factotum, confuso, fuso, sciolto nell’autrice (autobiografia a tratti, forse, ma Bologna cartolina d’ateneo grida pietà) che si interroga sulla forma romanzo (vera) nello sparpagliato diario che si ricompone (fittizio). Le citazioni dotte, esibite, da club sofisticato del sapere (Garboli, Caproni, Sanguineti e il Gruppo ’63, Schopenhauer e Ferrante, gulp!) gocciolano come un drip painting ideologico progressista frustato dall’ovvio (Trump, l’Amazzonia, i barconi). Dettagli macroscopici di fronte ai quali qualunque storia, anche la più intima, profonda, ispirata (che poi di questo stizzito luddismo antisocial… bah… ma davvero?), sprofonda nel The Apprentice del bravo letterato. Voto (you are fired): 5.

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