FLASHLOVER - INCENDIO A VENEZIA - 2/3
Flashover – Incendio a Venezia di Giorgio Falco (Einaudi) è un oggetto, anzi un soggetto, letterario ammaliante, complesso, sperimentale (termine usato abitualmente per dimostrare che la struttura di un libro ha un connotato sfruculiare formale). Ecco, allora, partiamo da questo approccio: mimetico con il reale e, allo stesso tempo, tra le stesse pagine, parallelamente, compenetrandosi, all’opposto rispetto alla mimetizzazione con il reale. Falco prende spunto da una vicenda storica accaduta la sera del 29 gennaio 1996 a Venezia, ovvero l’incendio doloso del Teatro La Fenice compiuto da parte di quelli che, con intuizione lessicale ammirevole, l’autore definisce il “cugino padrone” e il “cugino dipendente”: Enrico Carella, titolare della mini impresa Viet e il suo parente Massimiliano Marchetti. L’immaginazione potente dell’autore recupera subito Carella durante l’acquisto dell’agognata Bmw, solo rate su rate, sfondo micro economico della generazione del debito anni novanta (e seguenti), prima ancora che tutto il fatto storico, la cronaca, letterariamente cominci. E sono una ventina di pagine che fanno saltare sulla sedia. Perfezione compositiva purissima per incatenare definitivamente nell’operazione incendiaria letteraria il lettore. L’illusione che Flashover sia un classico romanzo sfuma attorno a pagina 32 quando Falco fa capire che l’uso continuo del mettere tra parentesi lunghi periodi, mezze pagine e fitte pagine intere, diventerà divagazione costante e dissoluzione suprema proprio della forma romanzo introdotta con rara maestria. Falco, appunto, apre parentesi. E nelle parentesi ragiona. Riflette. Scava. Compone un trattato filosofico antropologico sulle ragioni mefitiche, “naturali”, del capitalismo post anni ’80, l’ideologia neoliberista (che non cita mai) come cultura involontaria del debito. Il gesto criminale, archiviato storicamente come biasimo conformista tra articoli di giornale e sentire comune, sfuma, si decompone. Badate bene la linea esplicativa del romanzo non tramonta mai. Nella parte centrale del libro si comprime, quasi scompare, poi riemerge irruenta nelle ultime dieci quindici pagine, proprio per non far credere di provare fastidio per il lettore medio avido di cause ed effetti. Insomma, Falco, tra quelle parentesi, tra quelle lunghe articolate, seducenti digressioni, macchie di colore abissali che si dilatano come colpite dallo schizzo di una goccia d’acqua, diventano fermenti esplicativi e speculativi del ragionare oltre l’apparenza, oltre il diaframma della maschera, una sorta di aggiornamento babelico de La vita quotidiana come rappresentazione di Goffman. Qui dobbiamo intervenire ulteriormente per far capire che lo sperimentalismo di Falco porta all’inframezzare il racconto (che sia la forma romanzo, che siano le digressioni tra parentesi) con alcune foto (autrice Sabrina Ragucci), bianco e nero, colore, mezzi busti, piani americani, profili, con protagonista sempre un tizio che indossa una maschera bianca modello V for vendetta ma senza pizzetto. Insomma, in Flashover niente è come sembra. Per comprendere l’incendio de La Fenice e gli ultimi quarant’anni di storia economica culturale occidentale bisogna scandagliare i fenomeni individuali (Carella, Marchetti, soci, padri, madri, fidanzate), sociali (quel Veneto emblema e simbolo di una naturalità trafitta dal divenire cementificato del progresso e degli schei), e tecnici (la spiegazione indimenticabile di come si sviluppa un incendio o la regola dei “tre minuti” che è il “fondamento capitalistico degli ultimi decenni” spiegato in maniera rocambolesca, quasi comica). L’operazione organica di Falco riesce infine a meraviglia, tanto che l’effetto è quello che il romanzo necessiti delle parentesi e viceversa per una vera comprensione addirittura della verità storica. Tanto, troppo, infinito il materiale messo, ci perdoni, “a fuoco” in Flashover. Tanto che sarà di quei libri, un po’ come si fa con i romanzi di Hoeullebecq, che verranno continuamente riletti per intero o a stralci, piluccati, usati, citati, rimirati. Un grazie infine per lo sprofondo verticale nell’essere umano, quando in mezzo non ci sono i tradizionali intralci del sentimento, del cuore, della passione, ma la turpe amoralità della materia denaro. Voto (con inchino): 9