Il cielo non ha preferenze, La montagna incantata, Una vita violenta. Cita i libri di Erich Maria Remarque, Thomas Mann e Pier Paolo Pasolini, in cui la tubercolosi è la malattia polmonare che allontana, isola e uccide, Giuseppe Ippolito il direttore scientifico dello Spallanzani per riallineare su una linea del tempo i comportamenti (il distanziamento sociale) e i luoghi (i vecchi sanatori e i nuovi Covid hotel) che ci impone la pandemia. E ricordare anche che l’Istituto nazionale per le malattie infettive di Roma ha una lunga tradizione di ricerca e cura di patologie, tubercolosi in primis, che sono state e sono una sfida costante per gli scienziati o una “vera palestra”, come l’Aids. I “patogeni nuovi e sconosciuti”, come era Sars Cov 2 fino a meno di un anno fa, rappresentano solo “l’ultima missione”, l’ennesima battaglia. Che potrà probabilmente essere affrontata anche con il vaccino GRAd-COV2 , che ha “inventori italiani, è prodotto in Italia vicino Roma ed è sperimentato in Italia” e che andrà a “competere scientificamente in un mondo dove i finanziamenti per la ricerca per i vaccini sono stati enormi”. Virologi, immunologi ed epidemiologi dello Spallanzani “erano pronti”. Come ha dimostrato anche la cura dei primi pazienti in Italia, i due coniugi turisti cinesi dimessi dopo 50 giorni. Anche se prima del Covid “c’eravamo dimenticati della lezione dell’Aids e improvvisamente siamo tornati nel buio più buio”.
Entro il 25 novembre verrà arruolato l’ultimo paziente della fascia anziani e “questo ci permetterà sulla base di risultati promettenti i documenti alle agenzie regolatorie alle fasi successive”. Il comitato indipendente “che valuta la sicurezza del vaccino” nei report iniziali ha verificato “livelli sicurezza e tollerabilità assolutamente buoni“. Dalla seconda metà di dicembre Reithera, l’azienda di biotecnologie che ha sviluppato il candidato vaccino, potrà presentare la domanda perché il composto venga valutato dall’Ema. Senza dimenticare lo sviluppo di un potente anticorpo su cui lo Spallanzani sta lavorando con la Fondazione Toscana Life Sciences di Rino Rappuoli.
Il 24 agosto lo Spallanzani ha iniziato la sperimentazione del candidato vaccino. A che punto siamo?
È stata completata la somministrazione al primo gruppo di 45 volontari di età inferiore ai 55 anni, suddivisi in tre gruppi da 15 persone, ciascuno dei quali ha ricevuto un dosaggio diverso. Attualmente è in corso l’inoculazione del vaccino, con le stesse modalità, al gruppo di 45 volontari di età superiore ai 65 anni, che si concluderà entro alla fine di novembre. A quel punto analizzeremo i dati e, sulla base delle evidenze che emergeranno, verrà individuato il dosaggio ottimale e si proseguirà con le fasi 2 e 3 della sperimentazione, nel corso delle quali sicurezza e immunogenicità del preparato verranno verificate su un numero più consistente di candidati. Nella fase 3, che prevede la somministrazione del vaccino a diverse migliaia di persone in aree dove il virus circola in maniera consistente, è prevista anche la presenza di un gruppo di controllo, ovvero di volontari ai quali verrà somministrato un placebo anziché il vaccino. Dopo che un numero significativo di persone avrà contratto l’infezione, si verificherà quante di esse appartengono al gruppo dei vaccinati e quante al gruppo di controllo, e su questa base di determinerà la capacità protettiva del virus. Se il valore sarà significativo, e se non si saranno verificate reazioni avverse di rilievo, il preparato potrà essere approvato e distribuito alla popolazione.
Le tecniche per sviluppare i candidati vaccini anti Covid sono diverse. Ci spiega quali sono e quale avete scelto voi?
Il vaccino GRAd-COV2, così come quello di Oxford, di Johnson & Johnson e tanti altri, utilizza la tecnologia del vettore virale non replicativo: si utilizza un virus innocuo per l’uomo, che nel nostro caso è il virus del raffreddore del gorilla, che viene reso incapace di replicarsi ed al cui interno viene inserito il codice genetico della proteina Spike del Sars-CoV-2. L’obiettivo che si persegue con questa tecnica è sostanzialmente lo stesso per tutte le altre piattaforme vaccinali: generare una risposta del sistema immunitario contro questa proteina, che agisce come una chiave sui recettori delle cellule umane, consentendo al virus di penetrare e di replicarsi al loro interno. Ci sono altre piattaforme più tradizionali, come l’utilizzo del virus inattivato o attenuato, usato da decenni per vaccini come quelli contro il morbillo o la poliomielite. Molti vaccini cinesi sono realizzati con questa piattaforma. Un altro approccio è quello delle particelle virus-simili, ovvero il rivestimento del virus privato del materiale genetico. In altri casi si utilizzano direttamente le proteine del virus, spesso utilizzando degli adiuvanti, sostanze chimiche che amplificano la risposta del sistema immunitario. Un altro approccio, forse il più innovativo, utilizzato tra gli altri dai vaccini BioNTech-Pfizer e Moderna, è quello di iniettare micro-particelle di grasso che contengono l’RNA della proteina spike, che penetrano nelle cellule umane, le quali seguendo le istruzioni del “RNA messaggero” producono la proteina spike del coronavirus.
In questi giorni si discute se il vaccino protegga dall’infezione oppure solo dalla malattia. Ci chiarisce qual è la differenza?
Le rispondo con un’altra domanda: a cosa serve un vaccino? A limitare il più possibile i danni che un patogeno può arrecare alla salute pubblica, in termini sia di mortalità o di invalidità (pensiamo ai danni devastanti della poliomielite sui bambini) ma anche, per patogeni meno pericolosi come l’influenza stagionale, a limitare il rischio di complicazioni su soggetti a rischio: bambini, anziani, malati. In un’ottica di salute pubblica, che è quella che da sempre guida le decisioni sulle vaccinazioni, se non riusciremo a realizzare un vaccino che “blocca” completamente il virus, potrebbe andare bene anche un vaccino che eviti che il virus attacchi le basse vie respiratorie, con tutte le conseguenze che ben conosciamo. Il Covid 19 a quel punto si ridurrebbe ad un fastidioso raffreddore che per alcuni giorni provoca tosse, mal di gola, qualche linea di febbre e la perdita di gusto e olfatto: niente di particolarmente grave, insomma.
Come centro di ricerca siete stati tra i primi al mondo a dimostrare la quasi-specie anche in Sars Cov 2. Ci spiega perché è un importante approccio di ricerca?
Il processo di replicazione del virus non è perfetto: come gli amanuensi nei monasteri medievali commettevano errori copiando da una pergamena all’altra i classici greci e latini, così può accadere che all’interno delle cellule le copie dei virus non siano perfettamente identiche all’originale. Si tratta di casualità, ma quando si determinano modifiche significative possiamo parlare di un nuovo ceppo, che può avere caratteristiche diverse: più o meno aggressivo, più o meno infettivo, e così via. La “quasi-specie” è una sorta di fase intermedia in questo processo: una serie di errori di replicazione che non hanno ancora determinato mutazioni significative. La nostra ricerca, condotta dal Laboratorio di Virologia in collaborazione con il gruppo del professor Fausto Baldanti di Pavia, ha evidenziato che il Sars Cov 2 mostra eterogeneità nei modelli di replicazione delle quasi-specie del tratto respiratorio superiore rispetto a quelle del tratto inferiore. L’ambiente nel quale il virus si replica potrebbe quindi influenzare lo sviluppo di eventuali mutazioni: è un importante punto di partenza per capire meglio l’interazione tra ospite e patogeno ed i modelli che questo virus utilizza per replicarsi all’interno dell’organismo, e per modulare in questo modo la progettazione di farmaci e vaccini.
Lo Spallanzani è stato il primo ospedale ad avere pazienti affetti da Covid, i due coniugi cinesi. Nove mesi dopo cosa è cambiato nelle cure?
Dal punto di vista dell’arsenale farmaceutico qualcosa è cambiato, ma non abbiamo ancora il “silver bullet” che permetta di sconfiggere il virus: sappiamo che alcuni farmaci come l’idrossiclorochina non funzionano, che altri come il remdesivir hanno una efficacia limitata e probabilmente servono più a chi li produce e vende a oltre 2.000 dollari a ciclo che a chi li riceve; sappiamo non vi sono evidenze di chiara utilità per terapie come il plasma iperimmune che qualche mese fa veniva strombazzata come la soluzione definitiva. Sappiamo che l’umile cortisone da pochi euro a confezione riduce notevolmente la letalità nei pazienti in condizioni gravi, e che l’uso di fluidificanti del sangue come l’eparina e – forse – la comune aspirina possono ridurre il rischio di trombi sanguigni nei malati di polmonite da Covid 19. Speriamo infine che gli anticorpi monoclonali, come quello che il gruppo di Rino Rappuoli a Siena sta sviluppando in collaborazione con lo Spallanzani, possano finalmente fornirci un’arma decisiva per la prevenzione e il trattamento.
Intravediamo una fievole luce in fondo a questo “buio più buio”.
Se dal punto di vista farmacologico il nostro arsenale non è ancora munitissimo, i nostri medici sono diventati però molto più bravi nel cogliere i segnali della malattia, nel modulare le terapie, nel mettere il sistema immunitario del paziente nelle condizioni migliori per affrontare e sconfiggere il virus. I dati dimostrano che il tasso di sopravvivenza dei malati è notevolmente migliorato nel corso di questi mesi, e non è solo perché si fanno più test e si trovano più casi positivi. Oggi solo il 5% degli infettati ha bisogno dell’ospedale, e solo lo 0,5% della terapia intensiva: il resto dei casi positivi è a casa perché asintomatico o con sintomi che si possono facilmente controllare con antipiretici, con il controllo dell’ossigenazione del sangue, in definitiva con quello che Gino Strada chiama “Tempidol”: il tempo necessario all’organismo umano per sviluppare gli anticorpi ed eliminare l’invasore.
Nei giorni scorsi ha avuto un’ampia eco il caso della trasmissione del virus dai visoni all’uomo. Questo potrebbe davvero inficiare l’efficacia dei vaccini?
Al momento non abbiamo ancora tutti i dettagli del ceppo virale che è stato ritrasmesso all’uomo dai visoni dello Jutland e che avrebbe una mutazione della proteina spike. Sino ad oggi il Sars Cov 2 ha dimostrato una notevole stabilità e le mutazioni registrate non appaiono significative, a differenza di quanto avviene con altri virus come l’Hiv per il quale non a caso non siamo ancora riusciti a sviluppare un vaccino. Ma dal momento che tutti o quasi tutti i vaccini in fase di sviluppo sono basati sulla risposta immunitaria umana alla proteina Spike, occorre tenere sotto osservazione qualunque potenziale mutazione di questa proteina. Bene ha fatto quindi il governo danese a chiudere l’area interessata ed a proporre l’abbattimento degli animali, e ci auguriamo che il Parlamento danese approvi la proposta.
Il virus circolava probabilmente già dall’estate del 2019. Cosa cambia questo rispetto a quello che sappiamo e abbiamo imparato del virus?
Si tratta per il momento di una ipotesi affascinante ma che necessita di ulteriori e solide conferme, da effettuarsi con metodi adeguatamente validati. In attesa di eventuali conferme, al momento mi convince maggiormente l’evidenza delle migliaia di sequenziamenti genomici effettuati in tutto il mondo, che concordano nel collocare lo spillover di questo virus intorno all’inizio di dicembre 2019.
Elaboriamo due scenari per il 2021. Il migliore e il peggiore
Il migliore: riusciamo a superare la seconda ondata riducendo a valori più facilmente gestibili i numeri dei contagi tra fine novembre e inizio dicembre, non “sbrachiamo” tra Natale e Capodanno, riusciamo a godere di una stagione influenzale molto più leggera del solito (come già avvenuto in Australia e Nuova Zelanda) grazie alle misure di distanziamento e all’utilizzo di mascherine, e a partire dai primi mesi del 2021 avviare la vaccinazione, in modo da arrivare prima dell’estate con una copertura sufficiente almeno per gli operatori sanitari, le persone anziane e i gruppi più a rischio. Lo scenario peggiore: pensiamo che “adesso c’è il vaccino” – in realtà siamo ancora a livello di comunicati stampa e non di lavori scientifici pubblicati – e non ci preoccupiamo più di mantenere le distanze, di lavarci le mani, di usare le mascherine. Alla seconda ondata che avevamo faticosamente superato a metà dicembre ne segue una terza tra febbraio e marzo con numeri ancora peggiori della seconda (guardiamo cosa sta succedendo negli Usa) e con la complicazione dell’influenza, e la disponibilità del vaccino in grandi quantità a partire dalla seconda metà dell’anno non basta ad alleggerire il carico degli ospedali e delle terapie intensive. La differenza tra i due scenari dipende dalle scelte che faremo nel prossimo mese, a livello di decisioni politiche e sanitarie ma soprattutto a livello di comportamenti individuali.
Cosa sta insegnando alla scienza e alla ricerca questa pandemia?
Che lavorando insieme, condividendo le conoscenze ed applicando senza sconti e scorciatoie il metodo scientifico è possibile spostare avanti – e di molto – le frontiere della scienza e della medicina. Era già avvenuto oltre trent’anni fa durante l’emergenza Aids, che generò una enorme quantità di ricerche e di conoscenza di cui oggi beneficiamo tutti: basti pensare alla sicurezza nelle trasfusioni di sangue, per fare uno degli esempi più banali.
C’è almeno un lato positivo di questa crisi che vale la pena ricordare?
Se quando tutto sarà finito avremo una sanità migliore, se avremo invertito il trend di tagli che negli ultimi venti anni ha impoverito il nostro sistema sanitario, se avremo cacciato i mercanti dal Tempio e mandato a casa quelli che pensano alle prossime elezioni e non alle prossime generazioni, allora potremo dire di aver onorato la memoria degli oltre 45.000 italiani che hanno perso la vita in questa tragedia collettiva.