Napoli 23 novembre 1980. Ore 19. 32 circa. Giusto 40 anni fa, io avevo appena compiuto 22 anni. Mi ero laureato in Medicina pochi giorni prima, il 29 ottobre. Era un pomeriggio uggioso, ma afoso: faceva troppo caldo per novembre.

Casa mia, in via Santa Teresa degli Scalzi 24, fa parte di un palazzo costruito nella prima metà del 1800 e nasce come Convento dei Novizi dei Carmelitani che curavano la adiacente Chiesa di S. Teresa al Museo Nazionale. Tra Rivoluzioni, occupazione francese, rientro dei Borbone, il Noviziato dei Carmelitani aveva perso vocazioni e così questa costruzione solidissima, tutta fatta con ben squadrati mattoni di tufo giallo napoletano sino agli ultimi piani e travi in legno di castagno degni di una nave ammiraglia dell’epoca, era stata venduta e le camerate erano diventate enormi stanze di case private. Per intenderci, pensate alle case che descrive Eduardo De Filippo in “Sabato, domenica e lunedì” dove nella sola cucina non pranzavano mai meno di dieci persone al giorno, e venti la domenica. O alle case che avete visto filmate in “Filumena Marturano” o alla famosa e tipica casa del filosofo Prof. Bellavista (Luciano De Crescenzo) che non è mai stata costruita in studio ma era la vera e casa del nostro vicepreside del liceo Genovesi, autentico prof di filosofia al liceo.

Tutte queste case, compresa quindi anche casa mia, a testimonianza che in passato si costruiva molto meglio che nei tempi moderni, hanno passato sostanzialmente indenni la terribile prova del terremoto del 23 novembre 1980, durato circa un minuto e 23 secondi, interminabili, tremendi!
Il terremoto, lo ricordo benissimo, ha avuto due fasi distinte: la prima , di circa 55 secondi, pesantemente sussultoria, nel corso della quale le case fatte male sono crollate immediatamente. La seconda, di circa 30 secondi, ondulatoria, con il danno alle costruzioni direttamente proporzionale all’orientamento delle costruzioni in rapporto alla ondulazione.

In questa casa enorme, antica, ex camerata di convento fatta ad L, ci trovavamo in quel momento soltanto io, mia nonna Margherita di 92 anni, mia mamma e mia sorella. Mia madre e mia sorella si trovavano in cucina, molto lontano da me e dall’ingresso dove ancora oggi abbiamo la tv. Dopo una decina di secondi dall’inizio improvviso e violento delle scosse sussultorie, corro subito all’ingresso, dove mi fermo sotto il forte ed ampio muro maestro in tufo. Non corro per le scale (siamo al terzo piano) , mi fermo e comincio ad urlare “Tutti fuori! Tutti fuori! Terremoto! Tutti qui all’ingresso sotto la porta!”.

Qualche secondo e mi rendo conto che mia madre e mia sorella non si vedevano. Erano rimaste ferme, paralizzate dal terrore, nella lontanissima cucina dall’altro lato della casa. Ed erano insieme alla nonna, che, scricciolo novantenne, non si poteva certo mettere a correre dal letto! Devo decidere cosa fare: restare fermo sotto lo stipite dell’ingresso che era forse il punto più sicuro della casa, aspettando la fine del terremoto senza scendere giù per le scale, o tornare indietro, attraversando tutta la casa che sembrava improvvisamente una nave in tempesta, sotto i lampadari di cristallo enormi che ballavano e risuonavano impazziti, prossimi alla caduta sulle nostre teste?

Non ho avuto esitazioni né dubbi: non mi andava né di sopravvivere da solo, né di morire lontano dagli altri, impendendo eventualmente persino un recupero dei corpi di tutti noi insieme. Immediatamente rientro e attraverso tutta la casa di corsa, sotto il suono terrificante dei lampadari, dei soprammobili che cadevano, e mi precipito dall’altra parte in cucina. Li ho misurati tante volte quei passi: sono non meno di cento, li ho fatti tutti di corsa, con la speranza di sopravvivere, ma soprattutto di morire anche io con loro, tutti insieme!

Arrivo in camera da letto della nonna, la prendo di corsa in braccio come Enea col padre Anchise e urlando sempre verso mamma e mia sorella, paralizzate, torno di corsa verso l’ampio stipite dell’ingresso, verso l’unico posto che pensavo potesse darci un minimo di sicurezza.

La casa intorno a me sembrava una nave in tempesta. All’andata, la attraversai nel periodo sussultorio del terremoto, e il terrore era pari alla certezza che mi sarebbe crollato tutto addosso all’improvviso. Al ritorno, la riattraversai nel periodo ondulatorio, con la nonna in braccio: mi sembrava di camminare come un ubriaco sulla tolda di una nave in tempesta. Per fortuna, non un solo lampadario si staccò e cadde! Ondeggiarono come mai avrei potuto pensare che potessero fare, fecero un rumore terribile e terrificante coi loro cristalli penduli che si scontravano tra loro, ma non cedettero! Nessuno!

Arrivato di nuovo all’ingresso con la nonna in braccio, mi giro per vedere dove fossero mia madre e mia sorella e mi accorgo, che, purtroppo, erano rimaste ferme in cucina. Io ho vissuto tutto quel minuto e 23 secondi del terremoto del 23 novembre 1980 praticamente correndo avanti e indietro per la mia grande casa antica, certissimo che mi sarebbe crollato tutto addosso. Ho avuto il comportamento meno prudente, ma più corretto come figlio, come nipote, come essere umano. Che senso avrebbe avuto per me sopravvivere eventualmente da solo?

Non me lo sarei mai perdonato, e mai mi sarei perdonato se non avessi deciso comunque di tornare e prendere in braccio mia nonna, che sarebbe poi morta serenamente nel 1981, per cercare di salvarla.

Appena ritornato all’ingresso con la nonna in braccio, mi accorsi che non ero stato seguito da mia madre e mia sorella. Ma il terremoto si fermò! Dopo 40 anni questa casa è ancora più grande: ci viviamo soltanto in due. Provo orgoglio e dolore a pensare che io, da giovane, non ho avuto esitazione alcuna a tornare per prendere in braccio mia nonna novantenne e cercare di salvarla con me o di morire insieme, mentre oggi non sono stato capace di convincere come medico i nostri ragazzi a usare meglio e di più le mascherine, specie questa estate, per cercare di salvare da Covid-19 i nostri malati e i nostri nonni.

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