Non ci crederete, ma anche Saddam Hussein, quarant’anni fa, staccò un assegno: cinquecentomila dollari per aiutarci a fare fronte alla tragedia. Il terremoto, conosciuto come quello dell’Irpinia ma che in realtà colpì ferocemente larga parte della Campania e della Basilicata, è l’unica catastrofe naturale che abbia cambiato il volto politico e civile dell’Italia.

Quel terremoto, che oggi celebriamo nei suoi quarant’anni, ha dapprima unito l’Italia, perché la quantità di morti e di feriti, la dimensione della sciagura, mosse il Paese e il mondo intero a una solidarietà totale e incondizionata. Ma gli scandali che seguirono o accompagnarono la ricostruzione, scandali che i media definirono come “Irpiniagate”, sancirono la frattura del Nord col Sud, furono la miccia che diede fuoco all’animo leghista, all’idea della Padania, alla Lega che Umberto Bossi disegnò nel suo primo manifesto: il nord dipinto come una grande mucca e il sud che beveva il suo latte. Chi lavorava e chi mungeva, chi portava i soldi e chi li sprecava.

Era propaganda certo, ma tanto suggestiva, di fronte al fiume di miliardi di lire che si dirigevano tra Napoli e Potenza negli anni seguenti al sisma senza una logica, una validazione, un esempio di buona pratica.

La propaganda coprì una grande bugia: quel fiume di danaro servì non solo a costruire una rendita parassitaria alla classe dirigente del Mezzogiorno, che distribuiva a una società prevalentemente rurale un castello di promesse, di offerte, di capitali che invece avevano il solo scopo di irrobustire un sistema clientelare. Quei soldi, il conto finale sarà di 55mila miliardi di lire, furono ossigeno per le aziende del nord, e boccone prelibato per i tantissimi imprenditori padani che fecero incetta di dazioni senza vincolo.

Il Nord ingrassò su quella tragedia mentre il Sud, gonfiato dalle provvidenze, viveva la sua stagione più falsa. Nessun progresso vero, nessuna responsabilità, nessun salto di qualità. Solo cemento, buttato ovunque, che tombava le campagne.

Certo, il terremoto colpì la parte più fragile, quell’Italia interna e perduta che viveva condizioni di arretratezza. Chi voglia adesso percorrere quelle strade che ieri nemmeno erano segnate bene nella cartografia ufficiale, assisterà a un paesaggio mutato. Non mura cadenti ma intonaci ben fatti, case ampie, confortevoli ovunque. E’ mutato il paesaggio, e quelle scene drammatiche di una società primitiva e impaurita, piegata da un dolore così enorme come le foto di Antonietta De Lillo, quel 23 novembre del 1980 ritraggono in tutta la loro cruda ferocia e che qui potete vedere, ancora resistono nella memoria. Quel che fa male, e che qui piangiamo, non sono solo i circa tremila morti, gli ottomila feriti, il mezzo milione di sfollati.

Piangiamo l’incapacità di aver dato dignità ai soldi della ricostruzione, di non averli saputo metterli a frutto, di averne sprecati tanti e lasciato alle generazioni che sono nate nei prefabbricati case magari più comode ma non un lavoro, un futuro, un orizzonte.

Terra di emigranti, ieri come oggi. Questa è insieme l’accusa alla classe politica ma anche la colpa, la più grande, la più definitiva, di una società che ha guardato, ferma alla riva, scorrere quel fiume di denaro senza chiedere, senza giudicare, senza protestare.

© Foto di Antonietta De Lillo

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