La Corte costituzionale ha depositato le motivazioni con cui spiega perché ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate sul decreto varato nel maggio scorso. In pratica la disciplina del decreto non abbassa in alcun modo i doverosi standard di tutela della salute del detenuto, anche nei confronti dei condannati ad elevata pericolosità sociale, compresi quelli sottoposti al regime penitenziario del 41-bis.
Il decreto varato dal governo per riportare in carcere i boss mafiosi scarcerati durante l’emergenza coronavirus non lede il diritto alla salute dei detenuti. Lo scrive la corte Costituzionale nelle motivazioni della sentenza numero 245 con cui spiega perché ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate. In pratica la disciplina del cosiddetto “decreto antiscarcerazioni” non abbassa in alcun modo i doverosi standard di tutela della salute del detenuto, garantiti dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo anche nei confronti dei condannati ad elevata pericolosità sociale, compresi quelli sottoposti al regime penitenziario del 41-bis.
Si trattava di una norma per il “tutti dentro“, scritta per sanare una situazione d’emergenza. Il governo infatti aveva approvato il decreto legge proposto da Alfonso Bonafede che puntava a far tornare in carcere i 376 mafiosi scarcerati nelle ultime settimane. Erano tutti detenuti al 41 bis e nei regimi di Alta sicurezza che avevano ottenuto i domiciliari grazie all’emergenza sanitaria. In pratica la norma imponeva ai giudici di Sorveglianza di rivalutare in 15 giorni se sussistessero ancora i motivi legati all’emergenza sanitaria. Era infatti sulla base del rischio contagio se i giudici hanno consentito gli arresti casalinghi a mafiosi, presunti boss, killer e spacciatori di droga tra marzo ed aprile.
Le eccezioni di incostituzionalità erano state sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Sassari e dai Magistrati di sorveglianza di Spoleto e di Avellino sul decreto legge n. 29 del 2020 e sulla legge n. 70 del 2020, relativi alle scarcerazioni connesse all’emergenza Covid-19 di condannati per reati di particolare gravità. I dubbi riguardavano le norme che impongono al Magistrato di sorveglianza – una volta concessa provvisoriamente, per ragioni legate all’emergenza sanitaria, la detenzione domiciliare ai condannati per questi reati – di rivalutare periodicamente le condizioni che giustificano la misura, alla luce dei pareri delle Procure distrettuali e della Procura nazionale antimafia, nonché delle informazioni del Dipartimento degli affari penitenziari sull’eventuale sopravvenuta disponibilità di strutture sanitarie all’interno del carcere o di reparti di medicina protetti, idonei a ripristinare la detenzione del condannato. La Corte ha ritenuto che questa disciplina non violi il diritto di difesa del condannato.
La legge sull’ordinamento penitenziario , nota la Consulta, da tempo affida al Magistrato di sorveglianza il compito di anticipare, in situazioni di urgenza, i provvedimenti definitivi del Tribunale di sorveglianza sulle istanze di concessione di misure extramurarie per ragioni di salute, sulla base anche di documentazione acquisita direttamente dal magistrato e non conosciuta dalla difesa. La stessa situazione si verifica nel procedimento di rivalutazione introdotto dal dl, funzionale ad attribuire al magistrato la possibilità di revocare in via provvisoria e urgente la detenzione domiciliare già concessa, in modo da mantenere sempre aggiornato il bilanciamento tra l’imprescindibile esigenza di proteggere la salute del detenuto e le altrettanto fondamentali ragioni di tutela della sicurezza pubblica, legate alla particolare pericolosità di questa tipologia di detenuti.
Il diritto di difesa del condannato potrà poi esplicarsi pienamente nell’ambito del procedimento davanti al Tribunale di sorveglianza, destinato a concludersi nei trenta giorni successivi all’eventuale provvedimento di revoca, nel quale il difensore avrà completa conoscenza dei documenti e dei pareri acquisiti. La Corte ha poi escluso che la disciplina esaminata contrasti con il diritto alla salute del detenuto e con il principio di separazione dei poteri. La legge, infatti, non intende esercitare alcuna indebita pressione sul giudice che ha in precedenza concesso la detenzione domiciliare e mira unicamente ad arricchire il suo patrimonio conoscitivo su possibili opzioni alternative intramurarie, in grado di tutelare in modo ugualmente efficace la salute del condannato.