Dal 13 novembre proseguono le ostilità nella zona del Guarguaret. Dal 2016 la zona tampone è al centro della tensione tra Rabat e i sahrawi perché attraversata dall’unica strada che porta nella vicina Mauritania. "Ci è stato proposto un accordo e l’abbiamo firmato, ma non è mai stato rispettato", dice al Fatto.it Malianin Lakhal, attuale portavoce della repubblica Sahrawi
La guerra tra il Marocco e il fronte Polisario si è riaccesa, e non sembra destinata a spegnersi rapidamente. Dal 13 novembre proseguono gli scontri nella zona del Guarguaret, la regione tampone tra il Sahara Occidentale e la Mauritania. Si combatte ormai anche lungo i 2.720 chilometri di uno dei muri più lunghi al mondo che percorre da nord a sud l’ex colonia spagnola. La barriera di sabbia costruita dal Marocco durante gli Anni 80 divide in due il Sahara Occidentale, separando le terre occupate dalla monarchia marocchina nel 1976 (ad ovest) dal restante 20% (ad est), controllato dal movimento indipendentista Polisario. Dal 2016 la zona tampone del Guarguaret, dove sono iniziati gli scontri tra l’esercito marocchino e quello sahrawi, è al centro della tensione tra le due parti perché attraversata dall’unica strada che porta nella vicina Mauritania, principale arteria per il passaggio via terra di uomini e merci tra il Marocco e l’Africa occidentale. E le nuove tensioni hanno alimentato altri flussi migratori nell’Ocean Atlantico.
Da quattro anni la monarchia prova a completare l’ultimo tratto dell’arteria – proprio quello che attraversa la zona cuscinetto tra il Sahara Occidentale e la Mauritania, accessibile solo ai caschi blu dell’Onu – violando così gli accordi con il Polisario. Dall’altro lato del muro, i civili sahrawi manifestano da settimane nel tentativo di fare pressione su Rabat bloccando il traffico al valico del Guarguaret. La loro richiesta è la stessa da trent’anni: l’organizzazione di un referendum sull’autodeterminazione, come previsto dagli accordi che hanno portato a un cessate il fuoco nel 1991 dopo quasi vent’anni di guerra. “Ci è stato proposto un accordo e l’abbiamo firmato, ma non è stato rispettato. L’assenza di scontri dagli Anni 90 ad oggi per noi non significa pace, ma repressione. La comunità internazionale crede forse che ignorare la questione del Sahara Occidentale rappresenti una soluzione?”, si chiede Malainin Lakhal, attuale portavoce della repubblica Sahrawi – proclamata nel ’76 e riconosciuta da 82 paesi, ma non dall’Ue – e ambasciatore in Botswana, intervistato da ilfattoquotidiano.it.
Come il Sahara Occidentale influisce sulle relazioni internazionali
Le terre dell’ultima colonia africana sono contese da quasi cinquant’anni e lo statuto postcoloniale del Sahara occidentale non è ancora stato definito. Questo conflitto di vecchia data su cui tornano ad accendersi i riflettori è stato a lungo dimenticato, nonostante continui ad influenzare le relazioni diplomatiche tra i paesi del Maghreb e l’Europa meridionale, Francia e Spagna in particolare. Iniziato negli Anni 70 dopo il ritiro dell’occupante spagnolo, continuato con il trasferimento di migliaia di marocchini verso sud durante la “marcia verde” del 1975, coinvolge numerosi attori internazionali tra cui la Mauritania e la vicina Algeria. Dopo aver inizialmente occupato la parte sud del Sahara Occidentale, la Mauritania ha firmato un accordo di pace con il Polisario nel 1979. Quanto all’Algeria, il Paese ospita sul suo territorio le vittime di quarantacinque anni di fallimenti diplomatici e vent’anni di guerra: più di 170mila civili sahrawi (fonti Unhcr) vivono nei cinque campi profughi sorti nella regione desertica del Tindouf. Con il passare dei decenni, in assenza di un’alternativa, generazioni di sahrawi sono cresciute in accampamenti di tende o piccole case di sabbia, in condizioni di estrema precarietà.
L’occupazione del Sahara Occidentale è una delle principali cause che hanno portato alla chiusura della frontiera tra il Marocco, sostenuto dalla Francia, e l’Algeria, che appoggia il fronte Polisario. Il confine non viene aperto da ventisei anni, e le relazioni tra i due Paesi sono congelate. Anche per questo l’utopico progetto dell’Unione del Maghreb Arabo (Uma) – organizzazione transnazionale fondata nel 1989 con l’obiettivo di favorire scambi commerciali e spostamenti tra Algeria, Libia, Marocco, Mauritania e Tunisia, la cui sede è proprio Rabat – si è rivelata un fallimento. Ancora a giugno 2020 si è tornati a parlare di crisi diplomatica tra i due Paesi, dopo che l’Algeria ha espulso dal suo territorio un console marocchino che ha definito l’Algeria “un paese nemico”. Il 1° novembre Algeri ha approvato via referendum, anche se con una bassissima affluenza alle urne (23%), la nuova costituzione voluta dal presidente Abdelmadjid Tebboune. Nel testo cade il principio di non-interventismo che caratterizzava l’esercito algerino dal 1976: i militari possono ormai oltrepassare i confini nazionali per intervenire all’estero. Questo aumenta il rischio di scontri al confine, “una linea rossa da non oltrepassare”, avverte l’ultimo comunicato del Capo di Stato maggiore dell’esercito algerino Said Changriha.
La credibilità della comunità internazionale
Il ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, ha dichiarato voler “evitare in qualsiasi modo l’escalation della violenza”. Ma gli appelli per un ritorno al cessate il fuoco non trovano ascolto lì dove la missione Onu, presente sul territorio da più di trent’anni, non è stata capace di adempiere il suo mandato. Anche a causa di divergenze incolmabili all’interno del Consiglio di sicurezza, la Missione delle Nazioni Unite per un Referendum nel Sahara Occidentale (Minurso) – il cui mandato è stato rinnovato il 30 ottobre, poco prima della ripresa delle ostilità – è stata spesso accusata di aver tollerato le numerose violazioni dell’accordo di pace. Inoltre, la missione Onu non si è mai dotata di un organo indipendente e imparziale in grado di monitorare il rispetto dei diritti umani da parte delle due parti in conflitto, come ribadisce un recente comunicato di Amnesty International. Tra incertezze e pressioni, il posto di inviato speciale delle Nazioni Unite in Sahara Occidentale, dopo le dimissioni del tedesco Horst Köhler a maggio 2019, resta vacante da più di un anno. Una situazione che contribuisce a “creare un clima favorevole” alla ripresa delle ostilità, dichiarava ad aprile il rappresentante del Polisario per l’Unione europea.
“La soluzione esiste, ed è stata trovata in altri casi simili durante i processi di decolonizzazione degli Stati africani. Anche i sahrawi sperano che la guerra termini rapidamente, ma non accettano una pace che li priva dei loro diritti. Da anni chiediamo di rispettare il diritto internazionale. Io ricordo l’arrivo dei primi caschi blu nel ’91, era come un sogno dopo anni di guerra. Ma sono bastate poche settimane per capire che non sarebbe stato organizzato alcun referendum”, racconta ancora Malianin Lakhal. La risoluzione del conflitto resta però centrale per la stabilità del Mediterraneo e del Maghreb occidentale, che da settimane attira l’attenzione della cronaca anche a causa del notevole aumento delle partenze di migranti subsahariani verso le isole Canarie (Spagna), a poche miglia dalle coste nordafricane. Più di 15mila persone hanno attraversato l’Oceano Altantico verso l’arcipelago spagnolo e si trovano ora bloccate in tendopoli sorte a pochi metri dai resort turistici. Così il Nord Africa occidentale torna ad essere uno dei fronti caldi del continente.