Maledetto 2020! Mi hai sottratto due grandi affetti, mio padre e Diego.
Lo so che può sembrare esagerato, lo so che può sembrare una classica sceneggiata per chi non è napoletano ma non me ne frega nulla e lo ripeto: ho perso, abbiamo perso, noi napoletani, un fratello maggiore, un parente stretto. Il mondo del calcio, anche quella parte che lo ha sempre dipinto come il “cattivo esempio”, ora lo ricorderà con retorica più o meno opportunistica. Noi napoletani no, noi abbiamo il diritto di piangerlo come sta capitando a me in queste ore.
Il calcio non c’entra nulla, io ho perso il mio amico, l’amico di tutta Napoli, colui che ci ha difeso ed onorato in tutto il mondo. Da questo momento scatterà la corsa al ricordo del figlio di Napoli.
Perché, per capire cosa è stato Diego per noi, occorre ricordare ciò che non riguarda il calcio.
5 luglio 1984 arriva Lui, isso (dal latino ipse “egli stesso”, “proprio lui”), Maradona. Già il solo fatto che a noi basta dire Lui per identificarlo rende l’idea della confidenza e della venerazione. Quel Lui, che utilizziamo solo quando puntando un dito e lo sguardo al cielo ci rivolgiamo a nostro Signore, da 35 anni nel nostro immaginario blasfemo è anche Maradona.
È il giorno che cambia la nostra storia, il giorno in cui mi convinsi che “prima o poi” ci saremmo riscattati dalle tante delusioni. Maradona saluterà i napoletani giovedì allo stadio San Paolo, così titolavano i giornali. Insieme al mio amico fraterno Rosario, all’epoca entrambi studenti universitari, decidemmo di concederci due giorni di vacatio dallo studio. La storia ha bisogno di essere vissuta per poterla raccontare.
Arrivammo allo stadio e ci collocammo nella tribuna laterale, anello inferiore. Davanti a noi un ragazzo della nostra età abbracciava il papà cieco e lo tutelava dalla ressa. Entra Diego, poco vedevamo da quella posizione. Centinaia di persone, di ogni genere ed etnia, circondavano Maradona che non aveva neppure lo spazio per potersi muovere secondo i suoi istinti. La cerimonia era caratterizzata da confusione e pressappochismo, sintomo di una organizzazione fragile, che vacillava paurosamente sotto il peso di una vicenda che stava assumendo dimensioni grottesche. Non eravamo ancora preparati alla grandeur. Ma come sempre la città si era mostrata disponibile a esibire il suo fecondo grembo di madre di figli che al mondo non trovano uguali.
E’ quanto avvenne al “figlio del cieco”, così è ricordato nelle nostre leggende, un ragazzo che, passo dopo passo, trasferiva al padre tutte le varie fasi dell’evento. Una cronistoria da brividi. “Ora sta calciando un pallone al cielo… papà sta facendo il giro del campo… in questo momento è sotto la curva B… manda baci e stringe forte i pugni al cielo… eccolo, papà, è davanti a noi!…”. Era proprio lì, a pochi metri. E in quel posto si fermò più del dovuto. Il tempo necessario per scattare, con una macchinetta fotografica dell’era paleolitica, una foto che conservo gelosamente.
“Tu non mi vedi, ma io ti vedo”. Abbiamo sempre voluto immaginare, io e il mio amico, che Diego abbia visto il “papà cieco” e gli abbia inviato questo messaggio in uno di quei sorrisi di speranza che solo Lui sapeva donare.
“Papà ci ha salutato e ci ha mandato un bacio…”, replicò il figlio rivolgendosi al padre e abbracciandolo con un calore e un affetto che sento ancora addosso, nei brividi e nelle emozioni che tuttora, mentre scrivo, mi rievocano quel ricordo. Una lacrima di gioia scorreva da sotto gli occhialoni scuri e rigava il viso del papà. Io e Rosario ci abbracciammo mentre piangevamo per la gioia.
Fino a poche ore fa lo facevamo sistematicamente negli accecanti ricordi di una felice follia collettiva che per noi era diventata leggenda. Dieci minuti fa, all’arrivo della triste notizie, mi ha telefonato Rosario ed insieme abbiamo pianto. Ciao Diego.