Il problema è il tempismo. Nel periodo 2015-2020 i fondi statali e regionali destinati a contrastare la violenza sulle donne sono cresciuti quasi progressivamente, in particolare dal 2018 al 2020. Ma la loro distribuzione è rimasta imbrigliata nelle maglie della burocrazia e la prima tranche ha raggiunto i destinatari in media dopo un anno e mezzo rispetto allo stanziamento. È quanto emerge dal monitoraggio antiviolenza redatto da ActionAid, che ha ricostruito somme e percorsi dei soldi dedicati a questo ambito per i precedenti cinque anni. “La legge 119 del 2013 prevede finanziamenti annuali che poi, attraverso il Dipartimento per le Pari Opportunità, arrivano alle Regioni”, spiega Isabella Orfano, esperta dei diritti delle donne per ActionAid e responsabile del monitoraggio insieme a Rossella Silvestre. “Le Regioni poi possono decidere di inviare i fondi direttamente ai centri antiviolenza (Cav), oppure di passare prima dai Comuni. In alcuni casi c’è una distribuzione mista”, continua. “Sono soldi necessari per finanziare i Cav, le case rifugio e le attività del Piano Nazionale Antiviolenza. Quest’ultimo è iniziato nel 2017 e si sta chiudendo con il 2020”.
I tempi sono lunghi: “Per il 2015-2016 siamo alla distribuzione del 72% della somma totale. Per il 2017 al 67%, per il 2018 al 39% e per il 2019 al 10%”, continua Orfano. “Per quanto riguarda il 2020, il documento di ripartizione dei fondi è stato firmato ed è alla Corte dei Conti. Forse in estate arriveranno le prime somme”. Questo significa, dicono da ActionAid, che i centri antiviolenza e le case rifugio sono spesso (se non sempre) in affanno. “Lo si è visto soprattutto nella prima ondata e anche in questa seconda, quando si sono trovati a dover gestire una situazione che richiedeva risorse maggiori rispetto al solito. C’era da attingere ai risparmi, ma in molti casi non è stato possibile perché le casse erano vuote. Tra mascherine, gel e norme anti contagio ci sono molte spese extra”, continua Orfano.
E questo, si diceva, nonostante l’incremento nel corso degli anni: una crescita quasi del 55% dal 2013-2014 a oggi per quanto riguarda i finanziamenti statali. “Alcuni numeri: nel 2015 -2016 18 milioni, nel 2017 12,7 milioni. Soprattutto: nel 2018 20 milioni, nel 2019 30 milioni e 2020 28 milioni”. ActionAid vede un trend analogo per quanto riguarda i fondi regionali, che in media salgono del 30% e mettono in luce una sinergia positiva con i finanziamenti dello Stato: dopo averli ricevuti, alcuni territori hanno potuto usare i propri per finanziare altre attività prima meno coperte, come l’inserimento socioeconomico delle donne in difficoltà.
Il problema resterebbe quindi nella distribuzione e nelle tempistiche. “Dove ci sono delle istituzioni che rendono il sostegno alle donne e il contrasto alla violenza prioritari, con reti locali condivise e attive, tutto funziona più speditamente. Se così non è, i tempi si allungano ed è tutto più difficile”. Il monitoraggio riscontra alcuni ritardi anche nel Piano Nazionale Antiviolenza 2017-2020: “A un mese dalla sua conclusione risulta attuato il 60% delle azioni previste. Dal nostro punto di vista emerge soprattutto una discrepanza nelle attività di prevenzione: ne sono presentate molte, ma non sono finanziate in modo adeguato. Al 15 di ottobre risultavano implementate per circa il 37% del totale. Sono invece un punto importante, perché la violenza si ferma soprattutto qui”.
Secondo ActionAid, per la gestione di tutte queste problematiche “È importante che la politica consideri il diritto delle donne a vivere senza violenza come una priorità, non solo un tema di cui parlare il 25 novembre”, chiude Orfano. “E con politica intendiamo tutti i ministeri, non solo il Dipartimento per le Pari Opportunità. Compresa la burocrazia, che non è mai neutrale. Decidere come erogare un fondo, o che meccanismo di ripartizione adottare, ha un’incidenza sui tempi non indifferente. Per questo diciamo sempre che anche la burocrazia è la porta d’accesso ai diritti”.
I Cav intanto proseguono il proprio lavoro. Durante la prima ondata la difficoltà più grande è stata l’accoglienza nelle case rifugio. In tutto sono 264 in Italia (dati 2019): “Ma secondo gli standard internazionali dovrebbero essere 2700, cioè 1 ogni 10mila donne con più di 14 anni”, precisa Orfano.
Non sempre hanno potuto gestire la combinazione di norme anti contagio e arrivo di nuovi ospiti e alcuni centri antiviolenza a loro collegati hanno dovuto ricorrere a b&b o alberghi. “Per quanto riguarda la nostra esperienza, posso dire che prima e seconda ondata hanno delineato scenari diversi” racconta Greta Savazzi, operatrice del CAV di Casalmaggiore in provincia di Cremona. “Nella prima c’è stata una necessità di riorganizzazione interna perché il virus ha colpito il nostro territorio in modo massiccio e quindi anche molte delle nostre famiglie. Con le donne c’è stato un problema soprattutto comunicativo, che abbiamo cercato di risolvere con qualunque mezzo avessimo a disposizione”, spiega. “Ora c’è un altro quadro. Per esempio, alcune donne che all’epoca convivevano con il maltrattante nel frattempo hanno cambiato sistemazione. La difficoltà più grande è l’interruzione brusca dei percorsi di autonomia e di inserimento lavorativo, da loro intrapresi. Nei casi da noi seguiti, questo ha rappresentato il maggior livello di criticità. I percorsi di fuoriuscita non sono mai semplici e per portarli a termine è fondamentale avere un lavoro o attivarsi per trovarlo, anche perché spesso si tratta di donne con figli”, continua Savazzi. “Per lo stesso motivo si evidenzia la necessità di servizi e politiche lavorative che rendano possibili i tempi di conciliazione vita/lavoro, pena l’impossibilità delle donne di raggiungere una vera autonomia ed essere pertanto ulteriormente discriminate”.