Tutti condannati. Venticinque presunti esponenti della mafia foggiana – alcuni dei quali già con sentenze passate in giudicato – sono stati ritenuti colpevoli dal giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Bari, Giovanni Anglana, che li ha condannati al termine del processo con rito abbreviato a pene fino a 18 anni di reclusione per le accuse, a vario titolo, di associazione mafiosa, estorsioni e rapine aggravate, detenzione illegale di armi e tentato omicidio. La condanna più alta, a 18 anni di reclusione, è stata inflitta nei confronti del pregiudicato Francesco Tizzano, considerato l’esattore dei clan e per il quale è stata accolta in pieno la richiesta dell’accusa. Sedici anni invece per Giuseppe Francavilla e Massimo Perdonò. Ai capi clan Vito Bruno Lanza e Roberto Sinesi sono stati inflitti 14 anni di reclusione, 13 anni e 8 mesi per Alessandro Aprile, 13 anni per Francesco Pesante, a 11 anni e 4 mesi per Ciro Francavilla e per l’altro capo clan Rocco Moretti. Undici anni a Raffaele Palumbo e Antonio Salvatore, dieci anni e 8 mesi a Ernesto Gatta e Fausto Rizzi, 10 anni ad Alessandro Moretti, Cosimo Damiano Sinesi.
Stando alle indagini dei pm Lidia Giorgio e Federico Perrone Capano, coordinati dall’aggiunto Francesco Giannella della Direzione distrettuale antimafia di Bari, gli imputati avrebbero taglieggiato per anni, dal 2015 a 2018, quindici tra imprenditori e commercianti di Foggia, costringendoli a pagare un pizzo che variava dai 50 euro a funerale per una ditta di onoranze funebri, ai 500 euro a settimana per una discoteca, all’assunzione di persone vicine al clan in una Rssa, minacciando le vittime, con armi e aggressioni fisiche, di ucciderli o danneggiare le aziende con esplosioni. Soltanto uno degli imprenditori ha avuto il coraggio di costituirsi parte civile nel processo e, per la prima volta, lo hanno fatto, nei confronti della mafia foggiana, le associazioni degli imprenditori Confindustria Puglia e Foggia. Tutti dovranno essere risarciti dalle vittime insieme a Regione Puglia, Comune di Foggia, Fondazione Antiracket Puglia e l’associazione ‘Panunzio’ di Foggia.
Il tariffario della mafia foggiana era raccontato voce per voce nelle carte di Decima Azione, l’inchiesta del novembre 2018 che ha colpito i clan Moretti-Pellegrino-Lanza e Sinesi-Francavilla, padroni criminali di Foggia, e che nelle scorse settimane ha vissuto un ‘capitolo 2’ nel quale sono coinvolti diversi imputati. La città veniva battuta palmo a palmo, dalle officine ai resort, per le richieste estorsive tra minacce, schiaffi e pistole puntate alla fronte. Chi più chi meno, pagavano tutti. Gli uomini dei clan “spremevano” ogni attività commerciale. A un imprenditore che voleva acquisire dei terreni ai quali erano interessati i clan avevano detto: “Ritirati o dacci 200mila euro”. Quello non abbassò la testa ed era stato inseguito e terrorizzato per due anni. La Porsche dell’imprenditore venne costretta ad accostare: “Tu all’Incoronata (la contrada dei terreni, ndr) non ci devi andare… altrimenti ti incendiamo il vivaio, il piazzale e ti spariamo”, dissero puntandogli la pistola alla tempia.
Nell’ottobre 2017 – come veniva raccontato nell’ordinanza di custodia cautelare – avevano estorto 1.500 euro al proprietario di un agriturismo, che di fronte agli investigatori aveva negato tutto e si era poi preoccupato di avvertire i suoi estorsori. Alla proprietaria di un negozio di alimentari e carni avevano chiesto e ottenuto 4mila euro sotto le festività di Natale e l’avevano avvisata che altrettanti ne avrebbe dovuti versare a Pasqua. Cinquecento euro al mese era la somma ottenuta invece da una barista nel quartiere Borgo Croci, alla quale avevano fatto capire che se non avesse pagato avrebbe subito diverse rapine. La stessa cifra era costretta a versare la proprietaria di una nota discoteca della città, ma ogni settimana.
Nell’agosto 2017 era toccato a una ditta di imballaggi piegarsi al volere della Società foggiana: Tizzano aveva chiesto al proprietario di visionare i bilanci della società e di corrispondergli una somma di denaro pari al 5% del fatturato, “come avevano fatto gli altri”. E dopo erano iniziate le minacce anonime, ha riferito l’uomo agli inquirenti. “Pezzo di merda, mettiti a posto altrimenti ti faccia saltare la testa per aria”, gli ha detto un uomo al telefono nell’agosto di tre anni. Qualche settimana più tardi una lettera dello tenore, accompagnata da due proiettili calibro 7.65.
Dal socio di un’impresa edile erano riusciti a farsi dare 3.800 euro al mese, mentre altri 25mila ne avevano chiesti – e ottenuti in più tranche – ai legali rappresentanti di una ditta che stava costruendo un edificio in città Tizzano, sempre secondo l’accusa, si era presentato per conto dei clan in un cantiere e aveva detto all’ingegnere e responsabile tecnico della ditta al lavoro, al quale erano già stati chiesti 300mila euro nei mesi precedenti, che avrebbe dovuto chiedere il “permesso” per lavorare in città: “Come è tu vieni da fuori e non bussi?”. E, di fronte a una prima risposta negativa della vittima, ha poi raccontato mentre era intercettato: “Gli ho tirato un cannalone”. Uno schiaffo. Adesso per lui è arrivata la condanna più pesante.