di Niccolò Frangipani
Il Sudamerica è una gigantesca campagna che si estende per 17.840.000 km², dove possiamo trovare montagne di cinquemila metri, deserti, ghiacciai e fiordi, e dove il calcio è divisivo come in nessun’altra parte del mondo. In questa sconfinata campagna travestita da continente prende vita la vicenda dei nostri due protagonisti. Uno nasce in una di quelle tremende baraccopoli che caratterizzano le periferie delle città sudamericane all’inizio degli anni Sessanta, anzi proprio nell’anno 1960.
Il neonato, al quale verrà imposto il nome di Diego Armando, fin da quando è in grado di camminare non muove un passo senza che con lui ci sia il pallone da calcio, il più delle volte improvvisato. Gioca ovunque, ma sopratutto nei potreros – i campi in terra battuta d’Argentina – e fin dalle sue prime partite fa delle cose che in una periferia come Villa Fiorito nessuno avevo fatto mai. La voce si sparge e lo nota Don Francisco Cornejo – il miglior allenatore giovanile argentino dell’epoca – che vuole che il figlio di Don Diego e Doña Tota giochi per lui all’Argentinos Juniors. Don Diego, conosciuto da tutti in Villa come Chitoro, dopo alcuni tentennamenti dice: “Sì, mio figlio giocherà per lei, l’unica cosa che chiediamo è che abbia sempre l’adeguato sostegno morale”.
Siamo nel 1970 e la storia del calcio è appena cambiata per sempre: Diego Armando Maradona ha “firmato” il suo primo contratto.
Contemporaneamente dall’altra parte del Río de la Plata un ragazzo, che porta un nome abbastanza impegnativo, Vitor Hugo Morales, viene nominato direttore della più antica radio uruguaiana. Il giovane – all’età della nomina non ha nemmeno 23 anni – ha una capacità di aggettivazione sorprendente. Crea con le parole magnifici affreschi che raccontano con un’eleganza barocca quello che sta succedendo sul campo da gioco. Se c’è una cosa che accomuna questi due ragazzi – apparentemente lontanissimi – è una straordinarietà dell’immaginazione: come Diego disegna sul campo giocate, ricami e dribbling, così Vitor Hugo è perfetto nell’impreziosire l’evento che sta commentando quasi sdoppiando lo spettacolo, c’è la partita e poi c’è la sua telecronaca, anzi il suo relato.
I due coincidono per la prima volta al Mondiale sub-20 del 1979 disputato in Giappone, che vede Vitor Hugo inviato come relator al seguito della nazionale uruguaiana e Diego come capitano della nazionale argentina che si coronerà campione alla fine della competizione. Ma il vero appuntamento che entrambi stanno aspettando con un’attesa spasmodica è il mondiale in Messico del 1986.
L’Argentina si presenta con una squadra di gran lunga inferiore a quella eliminata ai gironi quattro anni prima in Spagna e con gli strascichi di una guerra e di una crisi economica che sta mettendo in ginocchio la popolazione. Dopo il girone, superato con cinque punti, ai quarti di finale ci sono gli inglesi, per Diego questo non è un avversario come un altro e lo si vede fin dal momento dell’ingresso in campo: mentre risuonano le note dell’inno guarda gli inglesi con quel disprezzo tipico di chi non si è dimenticato tutti i torti subiti in passato.
Quello stesso odio gli ritornerà utile al cinquantunesimo, quando un pallone strano, un campanile beffardo, sta per morire lentamente tra le mani di Shilton, Diego ci si avventa sopra con la stessa cattiveria con cui proteggeva i bidoni di acqua che portava dal pozzo a casa in Villa, e con un leggero e malizioso tocco di pugno supera il portiere inglese per firmare l’1-0. L’unico nello stadio che si è racconto che il gol è stato segnato con la mano è proprio Vitor Hugo dalla tribuna stampa, che infatti aspetta ad esultare. Ma quando l’arbitro e il guardalinee lo convalidano si lascia andare in un’esultanza smodata e rumorosa.
Ma Diego sa che degli avversari del genere non si possono solo battere, vanno umiliati, e decide di sfidare la difesa inglese con una cavalcata che ogni metro che passa sembra sempre più uno slalom con gli inglesi utilizzati come paletti, e dopo aver superato anche la linea del traguardo rappresentata da Shilton, mette il pallone in porta con la punta. Vitor Hugo anche questa volta è semplicemente perfetto, lo accompagna, corre con Diego, stende, su quei cinquantadue metri che il Diez percorre con quarantaquattro passi, un tappeto intarsiato con le parole più poetiche mai utilizzate per descrivere un gesto sportivo. Sembra quasi sapere, dall’alto della tribuna stampa, quale sarà la mossa successiva di Diego, come se profeticamente lo vedesse già correre ad esultare un secondo dopo aver ricevuto il passaggio di Enrique a centrocampo.
Commenta la cavalcata come se fosse argentino anche lui: in quel momento è noi contro loro, il Sud del mondo contro l’impero britannico. Gli inglesi sono una potenza mondiale, hanno dominato il mondo e quattro anni prima hanno ucciso 630 ragazzi argentini per difendere delle sperdute isole nell’Atlantico del Sud. In quel momento Diego non sta dribblando undici giocatori inglesi, sta sminuendo il senso di superiorità tipico degli imperi con cui gli inglesi hanno guardato il mondo negli ultimi cinquant’anni.
E poi la corsa, dopo aver dribblato Shilton, è una corsa quasi ultra terrena, come se Maradona volesse raggiungere il general Belgrano nella hall of fame degli eroi albicelesti; corre come se non dovesse fermarsi mai, come se correndo dovesse arrivare fino a Villa Fiorito. Arriverà ad alzare la Coppa del Mondo, riuscirà a correre fino alla leggenda. Come un barillete cosmico.