Arrivato a Napoli nel 1984, Diego Maradona trova in Rino Marchesi il suo primo allenatore italiano. Ma già dalla stagione successiva il direttore generale Italo Allodi decide di affidare la squadra e il genio argentino nelle mani del quarantaduenne Ottavio Bianchi, che aveva fatto bene con il Como. Il Napoli di Bianchi arriva subito terzo e l’anno dopo vince il primo storico scudetto. Rimarrà sulla panchina azzurra fino al 1989, allenando Diego per quattro campionati consecutivi. Ma più nessun mister ha avuto a disposizione Maradona per così tanto tempo di fila. Insieme vincono anche una Coppa Italia e una Coppa Uefa. “È stato uno shock. Ogni volta che sentivo parlare di lui in tv, mi aspettavo il peggio ma poi sapevo che con le sue risorse avrebbe dribblato ancora la morte. Ieri non è andata così. È mancato un ragazzo giovane, con qualità calcistiche superiori a tutti e altrettante debolezze. In questo momento mi scorrono nella mente solo cose belle”.
Come la sfida di palleggi con un limone. Lei riuscì a batterlo, lo racconta nella sua recente autobiografia Sopra il vulcano.
Fu un colpo di fortuna irripetibile, altre cento volte e non avrei mai vinto. A Diego sarebbe bastato usare solamente il tacco per battermi. Ma io non gli ho mai concesso la rivincita, lui scherzando me la chiedeva in continuazione.
Era anche un modo per fargli vedere che pure lei era stato un ottimo calciatore di Serie A.
Di questo non c’era bisogno. Bastavano le partitelle.
Racconti.
Ci giocavo sempre contro durante gli allenamenti, ma lui non voleva mai perdere. Pur di vincere io facevo il furbo nella consegna delle casacche. Mi sceglievo come compagni quelli che giocavano ogni palla e gli lasciavo in squadra quelli più talentuosi ma che in allenamento magari tiravano indietro la gamba. Lui si arrabbiava, voleva a tutti i costi vincere.
Era bello vederlo al campo durante la settimana?
Diego con i piedi faceva quello che io con difficoltà facevo con le mani. Bastava dargli un pallone e diventava un bambino. Si divertiva. Diventava gioioso. Guai a non farlo giocare. Il calcio era una parte del suo corpo, era la sua vita. Uno non arriva a quei livelli se non ha questo amore, se non sente questa passione già da bambino.
Come sarebbe stata la sua carriera da allenatore senza Diego?
Considero la mia esperienza a Napoli come una tappa, non l’ho mai valutata superiore alle altre stagioni di Bergamo, Como, Avellino, Roma… Mi consegnavano sempre squadre in difficoltà, la mia specializzazione era di sistemarle. A Napoli ero già stato da giocatore, e inizialmente non volevo andarci ad allenare, malgrado ci fosse il calciatore più forte al mondo. Con gli azzurri avevo giocato con Sivori, Altafini, Zoff, Juliano e non avevamo vinto niente. Pensavo che certe difficoltà ambientali sarebbero state insormontabili.
E invece sono arrivati i successi. Ha allenato Maradona probabilmente negli anni più belli della sua carriera. Crede di avergli dato qualcosa?
Non lo so, non lo so. So che se c’era uno attento a tutte le soluzioni tattiche quello era Diego. Si metteva sempre a disposizione. E non è vero che non si allenava. Ha mai conosciuto un musicista che arriva a livelli leggendari senza esercitarsi per dieci ore al giorno? Il gol che ha fatto con la cosiddetta mano de dios all’Inghilterra, lo provava spesso nelle partitelle e tu stavi lì ad arbitrare e neanche te ne accorgevi.
Ha qualche rammarico oggi?
Sì. E dovrebbero averceli tutti quelli che gli sono stati vicino. Al mio paese dicono che per un padre è più facile dire di sì che di no. Se tutti insieme avessimo detto qualche no, forse sarebbe stato meglio. Lui tuttavia era uno che decideva con la propria testa ed io ho sempre rispettato la vita privata degli altri, cercando di non interferire troppo.