E adesso comincerà la beatificazione del più grande e controverso calciatore di tutti i tempi. Alle divinità si perdona tutto anche quando cadono dal piedistallo. Un monumentale talento, 360 goal, tutti con il piede sinistro. Ma fu quando percorse quei 60 metri in 10 secondi, palla al piede, scartando gli attaccanti inglesi, per segnare il gol del secolo. Il calcio era il suo sangue. Lo stadio San Paolo sarà dedicato alla sua memoria, promette De Magistris, dichiarato il lutto cittadino (ma tanto siamo in lockdown). Il sindaco nel 2017 gli conferisce la cittadinanza onoraria.
Nel 2008 il regista serbo Kustarica presenta a Cannes il suo documentario “Maradona. La Forza di Dio”. Lo intervista a Buenos Aires, gli fa cantare: “Maradò, Maradò, il mio sogno aveva una stella piena di gol e di dribbling…”. Lo mette a nudo, la depressione che va su e giù e che lo ha accompagnato fino alla fine della vita. Squalificato per doping, il mea culpa davanti allo stadio gremito: “Se uno sbaglia non si deve fermare il calcio. Il pallone non si macchia. Ho sbagliato e ho pagato. Sarei potuto essere molto migliore di quello che sono. Ho ancora l’amaro in bocca…”.
Oltre a 143 chili appiccati addosso con un cuore che è quello di un’ottantenne. Entra ed esce dalla cliniche cubane e svizzere per disintossicarsi. “Io sono la mia colpa e non posso rimediare”, continua la cruda confessione a Kustarica. Non si concede attenuanti, vivevano in dieci in una baracca di un barrio di Buenos Aires. Sua madre per lasciare più da mangiare nei piatti dei figli diceva di avere mal di pancia. Suo padre faceva il facchino. Maradona è rimasto populista nel suo dna. Questo spiega la sua folgorazione per il Che e si fa tatuare la sua iconica faccia sul braccio.
Kustarica lo provoca: “Se non ci fossero stati il Che e Fidel Castro, gli yankee si sarebbero spinti fino alla Patagonia e in Sudamerica adesso si sarebbe parlato inglese”. Maradona risponde con l’inequivocabile dito medio. Se non avesse fatto il calciatore avrebbe fatto anche lui il rivoluzionario. Se invece avesse fatto l’attore sarebbe stato Roberto De Niro in Toro Scatenato.
Correva l’anno 1995, volai in Argentina per intervistare il presidente Menem con Maxima Zorreguieta, mia amica (sarebbe poi diventata la regina d’Olanda) che mi fece da interprete. A fissarmi l’incontro con Diego Armando fu Franco Macri, italiano naturalizzato argentino e fondatore di un impero nel settore dei lavori pubblici al quale ero stata raccomandata non ricordo da chi. Del potente clan, suo figlio Mauricio nel 2015 è stato eletto presidente dell’Argentina.
Diego mi ricevette in un club di calcio vicino casa sua. La leggenda vivente mostrava tutte le sue ferite: dipendenza dalla cocaina, evasione fiscale, battaglie legali per il figlio napoletano non riconosciuto… Non si sottrasse a nessuna della mie domande, anche le più scomode. Si capiva che cercava un riscatto attraverso la stampa. Fu galante a modo suo. Forse voleva provarci, mi invitò qualche giorno dopo all’inaugurazione di una sala a suo nome. Quando tornai a Napoli, il fioraio di Monte Di Dio si appese l’intervista e la mia fotografia nel negozio. Ero diventata anche io la celebrità del quartiere.
Manu Chao gli fa dedicare una canzonetta dai suonatori ambulanti: Se io fossi Maradona vivrei come lui, la vita è una tombola, mille missili, mille amici… Ciao Diego, non sono mai stata una tua fan. Comincio adesso.