di Francesco Spada
Da napoletano, ma ex tifoso juventino, purtroppo non ho vissuto le prodezze di Maradona con la passione, l’emozione e l’idolatria che hanno dominato la maggioranza dei miei concittadini. Non ho gioito o sofferto fino alle lacrime per una partita vinta o persa. Non mi sono sentito rappresentato né riscattato, in qualche modo, da quello che per me era un grande, immenso giocatore, ma pur sempre solo un giocatore di pallone. Ero giovane, ingenuo, tifoso di una squadra che ai miei occhi, in quel tempo, appariva vincente, apprezzata, elegante, famosa, rispettata. Ancora non capivo cosa voleva dire la frustrazione di essere gente del Sud, la sensazione di sentirsi sempre inferiori, la mortificazione di vedersi spesso considerati indegni, inadatti, incapaci.
Poi il tempo passa, si matura, si ragiona e si comprende che un semplice calciatore, venuto dal nulla, da un altro continente, può diventare un dio sceso in terra, può essere l’unica via di redenzione di un popolo, può diventare un figlio ed un padre allo stesso tempo, può riuscire ad unire le classi sociali, a far piangere anche chi, del calcio, non si è mai interessato. E se questo è riuscito ad un uomo, è stato possibile proprio perché è stato un uomo con le sue imperfezioni e le sue debolezze.
In una intervista a Kusturica, Maradona si chiedeva retoricamente che calciatore sarebbe diventato senza la cocaina, e certamente avrebbe vinto di più, avrebbe guadagnato di più, avrebbe avuto una carriera più lunga e lineare, ma non sarebbe mai stato quello che è diventato: sarebbe stato solo un Messi o un Ronaldo qualsiasi. Avrebbe conquistato le folle di tifosi, ma non i cuori di uomini e donne; sarebbe stato, lo stesso, il più forte di tutti i tempi, ma non sarebbe stato una divinità.
Quel suo essere sanguigno, generoso, diretto, sincero, i suoi atteggiamenti fuori le righe, quel suo essere fragile, cedendo immancabilmente alle debolezze, come il suo essere forte nell’ammettere gli errori; il suo schierarsi contro i potenti, come il suo essere vicino a chi ha fatto le rivoluzioni; il suo rifiutare contratti miliardari, per rimanere nel sud del mondo, come la difesa accorata di un popolo che da sempre è alla ricerca di un idolo, lo hanno avvicinato alla gente e reso un simbolo di umiltà. Così come il suo andarsene a soli 60 anni, dopo essersi fatto del male per tutta la vita, ha chiuso il cerchio per trasformarlo in mito da osannare e raccontare.
E la Napoli degli anni 80 aveva bisogno di Maradona per sentirsi un po’ meno confusa e prostrata, e a lungo ancora Diego, per molti, vivrà come unico momento di riscatto. Per questi e altri motivi, una città intera si stringe attorno ad un suo figlio, lo piange e lo rimpiange, lo venera come un santo protettore e lo adora per aver contribuito a far brillare la stella di Napoli nel pianeta.
Probabilmente, se Maradona fosse nato appena 15 anni dopo, le cose sarebbero andate diversamente, in un mondo profondamente mutato; ma, per fortuna, è nato al momento giusto ed è venuto a giocare nel posto giusto, creando un connubio impossibile da ricreare in qualsiasi altra città del globo.
Forse, in futuro, ci saranno giocatori come lui, ma mai più personaggi come lui, e il fatto che la sua vita sia stata scandita soprattutto dalle loro emozioni rende i Napoletani orgogliosi e fieri.
Da parte mia un rammarico: quello di averlo ammirato in campo ma di non aver mai goduto appieno, da tifoso, delle sue prodezze. E una speranza, quella che il mio popolo abbia sempre meno bisogno di un Maradona e del suo ricordo per potersi sentire finalmente fiero, orgoglioso e sicuro delle proprie capacità.