“Ho spesso temuto per l’incolumità mia e della mia famiglia“. A dirlo davanti al giudice è stata Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, il giovane morto nel 2009, una settimana dopo il suo arresto, a causa del pestaggio subito dai due carabinieri che l’avevano fermato. “Subisco attacchi in quantità industriale, continuo a ricevere insulti e minacce social. Passo buona parte del mio tempo in commissariato o alla polizia postale per presentare denunce contro chi attacca”, ha detto la donna, che ha deposto come teste al processo sui depistaggi messi in atto per insabbiare le indagini sulla morte del fratello. “Tra le accuse più assurde che mi vengono rivolte c’è quella che mi sono arricchita con la morte di mio fratello”, ha continuato Cucchi, spiegando che i soldi ricevuti com’è risarcimento sono “sono serviti a vivere, a rimediare ai danni lavorativi e alle spese processuali di questi undici anni. La nostra situazione patrimoniale è devastante. Purtroppo 11 anni sono tanti. Quei soldi sono serviti ad andare avanti e non è rimasto più niente”.

Il processo sui depistaggi è a carico di otto carabinieri, ed è successivo a quello per il pestaggio che ha già visto le condanne in primo grado di due militari: Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, ai quali sono stati inflitti 12 anni per omicidio preterintenzionale. “Io non sono assolutamente contro i Carabinieri, le forze dell’ordine o le istituzioni. Anzi credo che la mia battaglia è stata anche nell’interesse della parte buona, la stragrande maggioranza, delle forze dell’ordine. Non c’è nessuna guerra tra la famiglia Cucchi e l’Arma dei Carabinieri”, ci ha tenuto a sottolineare Ilaria Cucchi. Che poi è tornata indietro nel tempo: “Ricordo che andai alla question time di Alfano in Senato, dissi se ci avessero dato una mano, lui disse in aula che le lesioni erano dovute a una caduta. Mi sembrò una non risposta”. Poi ha ricordato gli incontri con i vertici dell’Arma: “In un incontro, Del Sette (Tullio ndr) disse che l’Arma è una famiglia e se un figlio sbaglia che facciamo? Era una sua osservazione. Con Nistri (Giovanni ndr) parlai dei commenti e post di Mandolini nei miei confronti. Lui rispose: Ognuno di noi ha degli scheletri nell’armadio”. Cucchi e Nistri furono ricevuti anche dall’ex ministra della Difesa, Elisabetta Trenta. “Il generale – sostiene Cucchi – esordi dicendo: io alle donne perdono tutto, e agli uomini no. Guardando negli occhi l’avvocato Anselmo. Mi sembrò un messaggio d’avvertimento. Poi parlò di Casamassima, dicendo che ci fossero procedimenti disciplinari, non entrando nei contenuti ma anticipando che ci fossero cose gravi”. Riccardo Casamassima è il militare che ha deciso di testimoniare alcuni anni dopo la morte di Stefano, rendendo possibile la riapertura dell’inchiesta.

“Io – ci ha tenuto a specificare Ilaria Cucchi – non ho mai voluto un colpevole a tutti i costi, ho sempre cercato la verità”. Poi la donna ha raccontato della sua sensazione al primo processo svolto sulla vicenda che risale all’ottobre del 2009. “Fu un incubo, un processo a mio fratello, un processo ad un morto. A ogni udienza mi dicevo: Stefano mio a cosa ti stanno sottoponendo. A un certo punto ho sentito parlare anche di frattura da bara, come se mio fratello se la fosse fatta da morto. Si parlava di tutto fuorché del motivo per cui eravamo lì: della vita di Stefano, della sua magrezza, di che fine aveva fatto la cagnetta, dei rapporti nella nostra famiglia. La sentenza di primo grado stabilì che la morte di Stefano era da attribuire a una colpa medica. Amici e parenti degli assolti insultarono e umiliarono la mia famiglia mostrando anche il dito medio”. Durante la deposizione la donna ha anche raccontato che suo padre “tutte le sere, prima di andare a letto, guardava il film su Stefano su Netflix. Mi disse che ognuno elabora il lutto a modo suo, lui in quel modo sentiva Stefano più vicino. Alla fine ho dovuto staccare il suo account, per evitare che si facesse altro male”.

Dopo Cucchi ha deposto Nicola Minichini, uno degli agenti della Polizia Penitenziaria imputati nel primo processo e poi assolti per non aver commesso il fatto. “Non so come ne siamo usciti, eravamo imputati in un processo farsa. Io sono stato tradito da altri servitori dello Stato – ha detto in aula – che hanno falsificato documenti, uomini che portano la divisa anche se di un altro colore ma che lavorano per lo Stato come me. Una cosa impensabile. Io e i miei colleghi eravamo i pesci piccoli in una vicenda così grande, c’era una rete ben architettata. Per l’opinione pubblica eravamo dei mostri. Io sapevo di non aver fatto niente, eppure ero continuamente assediato dai giornalisti”. Minichini ha ricordato che “nessun ministro della Giustizia ci ha mai espresso solidarietà. Mi sono bastate le parole del pm Giovanni Musarò che mi disse ‘lei è un galantuomò, e lo ringrazio perchè ha ridato la dignità a me e ai miei colleghi, così come ringrazio il mio avvocato Diego Perugini. Solo io e mia moglie sappiamo quanto abbiamo sofferto”.

(Ha collaborato Saul Caia)

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