di Roberto Iannuzzi*
La presidenza di Joe Biden aprirà certamente una nuova fase in America e nel mondo, ma la sofferta transizione presidenziale conferma che gli Stati Uniti non usciranno rapidamente dalla crisi nella quale sono progressivamente sprofondati negli ultimi anni. Lo dimostrano le prime settimane post-elettorali con l’interminabile conteggio delle schede, il risultato finale incerto per giorni, il rifiuto del presidente uscente di riconoscere la sconfitta, il presidente eletto costretto ad avviare i preparativi della transizione senza la collaborazione dell’amministrazione in carica.
Trump le ha provate tutte per ostacolare il suo avversario. Ha avviato una campagna legale per contestare il risultato elettorale, poi rivelatasi fallimentare. Per venti giorni (fino a lunedì scorso) ha impedito alla General Services Administration di riconoscere il nuovo presidente, negando così al team democratico di transizione l’accesso ai briefing dell’intelligence e ai fondi federali – una cosa mai verificatasi dal 1963, allorché le attuali procedure della transizione presidenziale vennero tradotte in legge. Ha suscitato allarme e interrogativi nominando figure a lui fedeli ai vertici del Pentagono. Tutto ciò non impedirà il passaggio di consegne alla Casa Bianca, ma indebolisce ulteriormente la democrazia americana.
Trump non è però l’unico responsabile del deterioramento del processo democratico negli Usa. Sebbene regolarmente eletto nel 2016, egli stesso era stato vittima di una campagna di delegittimazione ad opera dei democratici, della stampa e dell’intelligence ben prima del suo insediamento alla Casa Bianca, in quello che sarebbe poi divenuto il tormentone del Russiagate, ridimensionato dopo anni di indagini a un teorema senza prove.
Che la crisi statunitense precorra l’ascesa di Trump, e che non terminerà con la sua uscita di scena, lo dimostra una semplice osservazione: quella guidata da Biden è la quarta amministrazione consecutiva che promette di ricostruire l’America, dopo che le tre precedenti (Trump e Obama per due mandati) hanno fallito in questo stesso obiettivo. La verità è che, dopo il tracollo finanziario del 2008, la ricostruzione del tessuto economico e infrastrutturale degli Stati Uniti non è avvenuta perché non è stato ripensato il modello neoliberista che ha prodotto quel tracollo (erodendo i diritti dei lavoratori e della classe media, producendo precarietà e disuguaglianza, provocando devastazioni ambientali).
Analogamente, non è stato ripensato il modello strategico americano adottato a livello internazionale (in particolare l’interventismo militare, diretto o indiretto, che ha provocato o alimentato conflitti disastrosi in Iraq, Afghanistan, Siria, Libia e Yemen). Sia i repubblicani sia i democratici si ostinano a non voler rinnovare né la propria classe dirigente né i propri schemi ideologici. Il risultato è che, mentre i primi sono divenuti ostaggio di un outsider imprevedibile come Trump, i secondi continuano ad essere dominati da un’oligarchia gerontocratica che ha portato Biden, il quale proprio una settimana fa ha compiuto 78 anni, a diventare il più anziano presidente mai eletto negli Stati Uniti (si pensi che l’età media dei presidenti americani, al momento del loro insediamento, è di 55 anni).
Biden ha vinto, ma non ci sarà nessuna “restaurazione” dell’immagine e del ruolo dell’America. Con il Congresso spaccato e il senato forse destinato a rimanere in mano repubblicana, e con il paese reale profondamente lacerato, quella Biden sarà una presidenza debole. Sebbene Trump abbia perso, il risultato elettorale conferma che il trumpismo rimane vitale e radicato nel tessuto sociale statunitense. Solo l’élite di Washington, così disconnessa dal paese reale, poteva credere che Trump fosse un interludio bizzarro e passeggero nella vita politica americana. Il trumpismo è la conseguenza, non certo la causa, della crisi democratica degli Usa.
Con un Congresso ampiamente schierato a suo favore, Obama non riuscì a rimettere in sesto l’America. Difficilmente ci riuscirà Biden con una fragile maggioranza, con una Corte suprema ostile, e con un partito democratico diviso al proprio interno nel quale la sinistra rivendica quello spazio che le è stato troppo a lungo negato. Fra l’altro con la prospettiva, se la leadership democratica dovesse continuare a rifiutare di rinnovarsi, di un prepotente ritorno repubblicano in salsa trumpiana già alle elezioni di medio termine nel 2022.
Le prime nomine annunciate da Biden – a cominciare dal clintoniano Antony Blinken alla segreteria di Stato, uno dei fautori delle disastrose politiche condotte in Libia, Siria e Yemen – non lasciano presagire né un rinnovamento ideologico né un nuovo impianto strategico, facendo invece sospettare che il neo-presidente sarà una sorta di Obama 2.0.
L’America è tornata, ha detto Biden. Egli si porrà alla guida di una superpotenza profondamente indebolita, aspramente divisa al proprio interno, con l’ambizione alquanto velleitaria di ristabilire il primato di Washington a livello internazionale. La strada appare a dir poco accidentata, a cominciare dai rapporti con Cina e Russia. Ci sarebbe da augurare buona fortuna a tutti noi, prima ancora che a lui.
* Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017)