Dovevamo imparare una canzone sovietica, Quando passano le cicogne. Prima ce la facevano imparare al magnetofono, e poi la dovevamo cantare. Non lo dico per vantarmi, ma io ero l’unico che se la ricordava tutta, come se il russo fosse una lingua normale quando invece non è degna nemmeno di pulirgli le scarpe al francese (…) E così tutte le mattine, dopo aver lodato il compagno presidente Marien Ngouabi davanti alla bandiera nazionale nel cortile grande (…) recitavamo i primo otto versi della canzone.
Le cicogne sono immortali, di Alain Mabanckou (traduzione di Marco Lapenna; 66thand2nd), è l’ennesima straordinaria e riuscitissima prova di uno degli autori più originali degli ultimi anni. Lo scrittore africano riprende da dove si era fermato con Domani avrò vent’anni. Il protagonista è sempre Michael, ragazzino di Pointe-Noire con la testa tra le nuvole, testimone, come tutto il popolo congolese, dei tre giorni forse più drammatici della storia di quella che fu la Repubblica Popolare del Congo: l’assassinio del presidente, e capo della rivoluzione socialista, Marien Ngouabi.
Tra escursioni nella vita del quartiere di Voungou e celebrazioni ironiche e spensierate della quotidianità di quegli anni, Alain Mabanckou riesce a dare voce alla Storia e ai ricordi, trasportando i margini geografici di un universo colorato, scanzonato e marziale nella centralità di una narrazione dal ritmo costante.
Prima di arrivare in quella casa alla periferia di Tripoli, dove stavamo aspettando il momento della partenza, Maluk aveva preso l’abitudine di andare in spiaggia. Si sceglieva un posto solitario e iniziava a parlare al mare. Aveva tante cose da dirgli e non voleva che la loro conversazione venisse ascoltata. Era un segreto tra loro due, i curiosi non dovevano sentire nemmeno una parola.
Titanic africani, di Abu Bakr Khaal (traduzione di Barbara Benini; Atmosphere Libri), è la cronaca intima di un gruppo di rifugiati africani e della loro odissea per raggiungere le sponde del Mediterraneo. L’autore eritreo, lui stesso profugo in Libia per molti anni prima di approdare in Danimarca, racconta un’epopea disperata, con una prosa diretta, secca, senza fronzoli, capace di mettere in luce tutta la drammaticità di una speranza celata dai singoli individui, ma anche dalla collettività partecipe di quell’angustiata e obbligata migrazione verso nord.
Cammino alle spalle di un uomo che indossa una daraa blu. La mia posa è simile alla sua: siamo entrambi ritratti in una lieve oscillazione del corpo, un piede alzato, l’altro a terra. In lontananza si vede l’ingresso di una casa e accanto il retro di una macchina. Le ombre cadono a sinistra, creando a destra forme rettangolari che ricordano la porta di un campo di calcio. I piedi dell’uomo indugiano sopra la linea.
Lo sguardo di uno sconosciuto, di Emmanuel Iduma (traduzione di Gioia Guerzoni, introduzione al testo di Teju Cole: prefazione di Alessandra Di Maio; Francesco Brioschi Editore), è il viaggio di un flâneur nigeriano attraverso il continente africano. Una sorta di ballata, che oscilla tra il reportage narrativo, sequenze oniriche e punti di vista ottici, che racconta un cosmo fatto di scultori, migranti, tassisti, pedoni, mendicanti, poliziotti e mette in scena l’Africa con tutte le sue contraddizioni, le leggende popolari, i feticci, le reliquie e la ruvida realtà.
Uno stile che si colloca a metà strada tra Iain Sinclair e Giuseppe Marcenaro, originale nell’approccio, capace di puntare l’inquadratura narrativa sui dettagli della vita quotidiana.