Le misure di contenimento dell’epidemia hanno avuto costi ingenti per il paese. Questo problema, insieme a vari altri, quali la costituzionalità delle misure adottate o il loro effetto sull’abbandono scolastico, è stato sollevato da molti commentatori ma in linea di massima ignorato o quasi dall’opinione pubblica e dalla politica; anzi chi ne parlava veniva spesso accusato di voler negare o favorire l’epidemia e le morti ad essa conseguenti.

Oggi però il punto è diventato ineludibile e da più parti ci si interroga su quali misure economiche debbano essere prese per riparare ai danni causati dall’epidemia e dal lockdown, parziale o totale. Emerge quindi l’ipotesi di una tassa patrimoniale: far pagare i costi ai ricchi e ricchissimi, ipotesi proposta anche su questo giornale. In linea di principio l’ipotesi è plausibile e se il Fatto lancerà una petizione in tal senso io la firmerò. Però sarebbe stupido non porsi il problema di cosa si possa risolvere con la tassa sui patrimoni dei Paperoni, e sperare nell’impossibile.

In primo luogo una ipotetica tassa una tantum sui patrimoni ha un gettito limitato: si parla di 10 miliardi di euro, sufficienti ad erogare un sostegno di 800 euro mensili a un milione di famiglie per un anno. Meglio che niente, ma non è questo che risolve il danno economico conseguente all’epidemia e ai lockdown, che è stimato nell’ordine delle centinaia di miliardi.

In secondo luogo i Paperoni veri, al contrario di quello di Walt Disney, non conservano il loro patrimonio in un deposito di monetine, dal quale possono essere prelevati con il camion. I patrimoni miliardari sono in larga parte investiti e tassarli significa imporre ai proprietari un disinvestimento almeno parziale. Come sono investiti questi patrimoni? In immobili? In azioni? Il disinvestimento di una cifra relativamente ingente non è privo di effetti avversi sui mercati: fa perdere ulteriori soldi e tutti sanno che se si vendono le azioni il loro valore diminuisce.

In terzo luogo, la tassazione patrimoniale dei ricchissimi è dubbia dal punto di vista giuridico e culturale: di fatto configura una idea dello stato nella quale “le tasse vanno bene purché le paghi qualcun altro” che non appartiene alla nostra Costituzione che invece recita: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.” (art. 53). Ovviamente i Costituenti avevano in mente una fiscalità basata sui redditi, compresi i redditi derivanti dai patrimoni, ma non l’erosione dei patrimoni stessi (e infatti l’art. 47 tutela il risparmio).

Le considerazioni sopra riportate indicano molto chiaramente che la strada maestra per uscire dalla crisi economica (e culturale) nella quale l’epidemia ci ha portato sta in una ripresa delle attività produttive, associata ad una revisione delle aliquote delle imposte dirette (irpef, irpeg) improntata a criteri fortemente progressivi, in obbedienza al dettato costituzionale.

Ovviamente sono ancor più necessarie che in passato una severa azione di repressione dell’evasione fiscale, e una eliminazione di quei benefici fiscali che troppo spesso i nostri governi hanno concesso a soggetti forti (ultimo tra questi quello concesso alla Philip Morris, rivelato anche da questo giornale).

Alla fine, la tassa patrimoniale non appartiene all’ideologia di una sinistra democratica, ma alla sinistra dei Masanielli, della quale il nostro paese ha un’ampia quanto fallimentare tradizione storica. Lo scopo dell’imposizione fiscale non è la “punizione” della ricchezza, ma la condivisione dei costi dello stato e della nostra civiltà sociale: sanità, istruzione, giustizia, etc. Bisogna essere molto prudenti quando si dividono i cittadini in gruppi ai quali vengono imposti obblighi qualitativamente diversi: non per caso l’articolo che la Costituzione dedica alle tasse inizia con la parola “tutti”.

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