Al Grünwalder Stadion, un catino da poco più di 12mila posti nella periferia sud del capoluogo della Baviera, si affrontano il Monaco 1860 e il Türkgücü München. E' il punto più alto nella storia della società nata nel 1975 con il motto: “Preservare le tradizioni, connettere le culture”
Per un paio d’ore, forse, gli occhi di Monaco saranno puntati altrove. Perché mentre questo pomeriggio il Bayern fa visita allo Stoccarda, in Baviera si gioca un derby dal tasso tecnico molto modesto ma dal valore simbolico difficile da calcolare. Il palcoscenico è quello del Grünwalder Stadion, un catino da poco più di 12mila posti nella periferia sud della città che è stato distrutto dalle bombe della seconda guerra mondiale e poi ricostruito. Sopra quel prato poco soleggiato della terza divisione tedesca, si affrontano il Monaco 1860 e il Türkgücü München. Due squadre molto diverse, accomunate dallo stesso obiettivo. E la classifica c’entra fino a un certo punto. Il sogno è quello di smarcarsi per un attimo dalla tirannia di un gigante come il Bayern. La paura è, invece, è quella di vedersi declassare a terza squadra cittadina (i più insolenti, però, preferiscono parlare addirittura di quarta squadra, vista la presenza del Bayern II). D’altra parte le prospettive dei due club sono esattamente opposte.
Il Monaco 1860, quarto in graduatoria, sembra uscito da Terminus Radioso di Antoine Volodine. Una creatura non completamente viva ma allo stesso tempo neanche completamente morta. La sua dimensione è il passato, per lo più remoto, un tempo distante che racconta di uno scudetto, di due coppe di Germania, della finale di Coppa delle Coppe persa contro il West Ham nel 1965. Poi più niente. Così uno dei club fondatori della Bundesliga ha smesso di correre e ha iniziato a trascinarsi. Stancamente. Prima il purgatorio della seconda divisione. Poi, dal 2017, l’inferno della terza serie. Senza troppe prospettive di uscire a rimirar le stelle.
Una parabola esattamente opposta a quella del Türkgücü, un club che vuol far indossare calzoncini e maglietta a un ideale. La piccola società è nata infatti nel 1975 sotto la spinta della comunità di immigrati turchi decisi a integrarsi con gli abitanti pur mantenendo intatto il legame con la patria d’origine. Un obiettivo che si era tradotto in un logo molto colorato, capace di mantenere insieme la scacchiera biancoceleste della Baviera e la bandiera turca, e in un motto piuttosto esplicito: “Preservare le tradizioni, connettere le culture”. Il Türkgücü München, che significa letteralmente “Il potere dei turchi di Monaco”, per qualche anno ha rappresentato un’utopia, un adattamento in salsa tedesca dell’Athletic Bilbao. Fondatori turchi, giocatori turchi, tifosi turchi.
Poi le cose hanno iniziato a cambiare. Lentamente. Fino al 1983 il club era una realtà poco più che amatoriale. Subito dopo, grazie anche al supporto di un gruppo imprenditoriale piuttosto solido, ha iniziato la sua scalata nel calcio regionale. E con l’ascesa sportiva è venuta meno l’ortodossia filosofica. Fondatori turchi, tifosi turchi, giocatori non necessariamente turchi. Il piccolo club è diventato un punto di riferimento, intercettando la simpatia anche dei cittadini tedeschi. Il risultato è stato incredibile: stadio pieno per i match casalinghi, pullman affollati per le trasferte. Ma ogni crescita ha una fase di arresto. E il piccolo Türkgücü è caduto proprio sotto il fuoco amico. Colpa dell’apertura del club, che aveva finito per raffreddare il supporto della comunità turca. Ma anche delle pay-tv. Secondo Bundesitalia, infatti, con l’arrivo del satellitare molti tifosi hanno sostituito la curva del Türkgücü con il loro divano, postazione ideale per “restare in casa a vedere le partite dei colossi nazionali, ovvero Beşiktaş, Galatasaray e Fenerbahce”.
La disaffezione ha svuotato stadio e casse societarie. Tanto che nel 2001 il club è stato dichiarato fallito. Con il tempo, però, la società è rinata dalle proprie ceneri. Stessi ideali con un nome nuovo (Turkischer SV 1975 München). La storia recente è fatta di fusioni e di una serie di promozioni consecutive. Un percorso culminato in estate con la promozione in 3.Liga, la nostra cara vecchia Serie C. Ora il Türkgücü, settimo in graduatoria, ha davanti una doppia sfida: salvarsi e riconquistare le simpatie della comunità turca. “Io sono nato a Monaco ma ho delle radici turche – ha dichiarato qualche tempo fa Ünal Tosun, centrocampista che con i suoi tre anni di militanza è diventato una delle bandiere della squadra – Posso identificarmi al 100% con questo club, la sovrapposizione è perfetta”. Vero. Anzi, verissimo. Anche se i vertici del Türkgücü hanno deciso di accantonare una volta per tutte il modello Bilbao. “È un club turco, ma il successo è più importante e viene prima – ha detto il ds Roman Plesche in un’intervista – se dobbiamo scegliere fra qualcuno che si chiama Müller e un turco o un tedesco di origine turca, a parità di talento scegliamo il calciatore turco”.
Evidentemente le strade che portano a Monaco provengono per lo più dall’estero, visto che sono solo 7 i calciatori turchi o con il doppio passaporto. Tanto è bastato al club per diventare un facile bersaglio da parte delle altre tifoserie, particolarmente attive nel riservare ai calciatori del Türkgücü attenzioni speciali, spesso imbevute di razzismo. Un particolare che ha riacceso per l’ennesima volta i riflettori sull’emigrazione turca in Germania. Secondo i dati pubblicati dal ministero degli Esteri di Ankara sono oltre 6,5 milioni i cittadini turchi che vivono oltreconfine. Di questi, circa 3,5 milioni si trovano in Germania. Una migrazione che è iniziata negli anni Sessanta e che oggi rischia di diventare difficilmente gestibile. Proprio i turchi che si sono trasferiti o che sono nati in paesi più democratici, infatti, sono quelli che sostengono più apertamente Erdogan che, a sua volta, li usa per fare pressioni al governo di Berlino. Una situazione potenzialmente esplosiva che ciclicamente torna a riempire le pagine dei giornali.