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Antonino Cannavacciuolo per FQMagazine: “Il mio ricordo più intimo di Maradona? Per lui ho fatto una cosa che non ho fatto con nessuno”

Dall'ultima puntata di Antonino Chef Academy alla nuova edizione di Masterchef, passando per la grave crisi del settore della ristorazione e il rapporto con suo padre. E poi il rapporto con Diego Armando: lo chef in una intervista a 360°

di Francesco Canino

Antonino Cannavacciuolo ha realizzato tanti sogni nella vita, è nato in provincia ma ha raggiunto l’olimpo della cucina italiana e internazionale, ha cucinato per celebrità e capi di Stato – ma si è seduto al tavolo con un suo cliente solo una volta, quando a Villa Crespi è arrivato Maradona – ha costruito con sua moglie Cinzia un piccolo impero gastronomico, ma se gli chiedi cosa lo fa stare bene, lui ti spiazza e ti risponde senza pensarci: pescare con i miei figli. “Il wow di sottofondo per me ha poco valore: oggi ti considerano il migliore, domani arriva un altro più bravo e ti scalza”, racconta a FQMagazine de Ilfattoquotidiano.it alla vigilia dell’ultima puntata di Antonino Chef Academy, in onda martedì 1° dicembre su Sky Uno e NowTv, il programma prodotto da Endemol Shine Italy di cui è l’ideatore, mentre dal 17 dicembre tornerà con la decima edizione di MasterChef Italia.

Partiamo da Antonino Chef Academy: che edizione è stata?
Molto buona. Sapevamo dove migliorare e abbiamo alzato il tiro con prove più difficili anche per far capire cos’è davvero la cucina. Sì, c’è lo show e ci sono le telecamere ma dietro c’è sempre impegno e grande determinazione.

Qual è il punto forte del format?
Che non c’è solo il fattore «aspirazionale»: ovviamente questi ragazzi vengono per vincere perché in palio c’è un posto nella mia brigata, ma vivono il programma come se fosse un master: io sto davanti a loro, mi vedono lavorare e sporcarmi le mani, gli spiego il valore dell’esecuzione e dello studio. Nella penultima puntata, ad esempio, gli ho mostrato come trasformare il sedano rapa in tante consistenze diverse per realizzare un solo piatto. Dietro quella ricetta, ci sono trent’anni di mestiere.

Cosa la colpisce dei ragazzi?
Che entrano in un modo e in poche settimane escono diversi. Non è un caso che tutti parlino di una grande esperienza. Da casa sembra solo un programma di un’ora e mezza ma in realtà è una scuola vera: per ogni prova, stiamo lì dentro un giorno intero.

La sua accademia ribalta lo stereotipo della cucina in tv: non si urla, non si lanciano piatti, non si insultano i concorrenti. Somiglia a ciò che accade a Villa Crespi?
Certo. Per carattere e indole personale voglio che la mia brigata sia sana, che si diverta lavorando. E poi amo il silenzio in cucina, la meditazione: dobbiamo regalare emozioni a chi mangia da noi, con la rabbia e le urla il piatto non arriva pulito e noi non raggiungiamo l’obiettivo. Più l’atmosfera è serena e concentrata meglio è: basta una sbavatura, un po’ di sale in più e si esce sui giornali con una critica feroce. I cazziatoni al massimo li faccio a fine servizio.

Davide Marzullo, il vincitore della prima edizione lavora ancora con lei a Villa Crespi?
Sì, e sta facendo un’esperienza notevole. I cavalli di razza io li individuo subito.

C’è un cavallo di razza anche quest’anno?
Sì, c’è. È un diamante grezzo da pulire. Il bello per me è quello: poter fare qualcosa per questi ragazzi. C’è il preconcetto che ciò che si vede in tv sia falso, artefatto: io invece gli do una chance concreta per entrare nel mondo del lavoro.

Quanti curriculum le arrivano ogni giorno?
Una cifra impressionante. C’è un ufficio delle risorse umane che li seleziona, io poi ho l’ultima parola. A tutti dico: non vi stancate mai di mancare curriculum in giro, magari ora non c’è una posizione aperta ma tra due mesi potrei averne avrò bisogno. Io poi sono uno all’antica e aggiungo: scrivetelo a mano e mandatelo per posta il curriculum, significa che ci tieni, che hai perso del tempo per me. Se invece vedo che la stessa mail l’hai mandata a cento ristoranti perché ti sei dimenticato di mettere gli indirizzi in copia conoscenza nascosta, mi cadono le braccia.

C’erano solo tre donne su dieci concorrenti in questa edizione: perché?
Non c’è nessun intento maschilista, semplicemente si presentano in poche ai casting. Io mi auguro di riuscire a formare una classe di dieci donne. Viva le donne, sempre: quando cucinano, è finita per i maschietti.

Una cosa colpisce di questi ragazzi: sono giovanissimi ma sembrano già molto determinati. Lei era così alla loro età?
(ride) No, lo ero già da molto prima. A 23 anni ho aperto Villa Crespi. Ho iniziato da adolescente, a 13 anni, e dopo tre o quattro avevo già il mestiere tra le mani, nel senso che ero un bravo esecutore. A 17 si puntava su di me, a 19 lavoravo in un cinque stelle e la prima settimana il mio capo partita era andato in ferie e io venni chiamato a prendere il suo posto.

Che ricordi ha di quel momento?
Mi sembra di percepire ancora adesso l’orgoglio che mi esplodeva nel petto. La cucina era ed è qualcosa che mi brucia dentro, un fuoco inspiegabile. Non è lavoro, è divertimento, è qualcosa che mi fa stare bene. Posso stare dieci ore filate in cucina e non sentire la fatica. Cibo, tavola, condivisione, mi appartengono: ci sono nato con questo amore assoluto, è come se lo avessi nel dna.

La «colpa» è anche di suo padre?
Il merito, più che la colpa. Da bambino lo vedevo con la giacca da cuoco e pensavo che fosse Dio. Lo vedevo allestire i grandi buffet, percepivo l’esaltazione che c’era attorno a lui e forse lì è scattato dentro di me qualcosa. Però lui non voleva che facessi il cuoco.

Perché?
Papà è un uomo con la testa sulle spalle, uno che nel suo piccolo ha fatto tanto e ha conosciuto la vera gavetta e i sacrifici della vita del cuoco. Voleva che raggiungessi una posizione stabile, magari con il posto fisso: tutto ma non il cuoco e infatti si mise di traverso. Ma adesso comprendo le sue remore. Una volta fare lo chef era massacrante, per fare il pan di Spagna le trenta uova le montavi a mano perché le planetarie non c’erano, le bestie arrivavano intere e le dovevi sezionare, dalla trippa toglievi la merda mentre oggi la vendono già sbollentata, in cucina si stava dieci dodici ore al giorno davanti alle stufe di carbone. E potrei andare avanti all’infinito con questi esempi. Oggi abbiamo mezzi che ci permettono di fare tanto meno di fatica, c’è il fascino del cuoco con la divisa pulita anche se è comunque un mestiere duro.

Quand’è che suo padre ha cambiato idea?
Quando ha visto che mi sono incaponito per raggiungere il mio sogno. Ma mi disse: “Se vuoi fare il cuoco, fallo bene e tieni la valigia sempre pronta”. E aveva ragione: il cuoco viaggiatore ha una marcia in più. Per questo ho viaggiato per conoscere il cibo e aprire la mente.

Se sua figlia Elisa le dicesse «papà, voglio fare la chef», cosa risponderebbe?
I miei figli possono fare ciò che vogliono. A 45 anni ho capito che incaponirsi serve solo a fare danni. Se la devono disegnare da soli la loro la vita.

Lei è l’opposto del cuoco star: non ha tatuaggi, non ha fama da divo, non provoca per esserci. Un vizio ce l’avrà?(ride) Forse qualcuno, ma quelli li conoscono solo mia moglie e la mia famiglia.

A proposito di sua moglie: che ruolo gioca nella gestione del suo successo?
Cinzia è una grande donna, ci bilanciamo in tutto e c’è una condivisione totale degli obiettivi della nostra vita. Quanto al successo, lo vivo con assoluto distacco.

Che fa, pecca di modestia?
No, ma sono cresciuto con mio padre che mi ripeteva: “Fatti vantare, non ti vantare mai”. Nel 2002 conquistai la prima copertina e la lacrima scese quando lessi la recensione: “Probabilmente il miglior ristorante d’Italia”. Misi il giornale in valigia, arrivai a Napoli e quando lo feci vedere a papà, lui mi guardò e disse: “Se è vero quello che c’è scritto qui, ci dev’essere un seguito sennò non vale niente”. Invece di dirmi bravo, a modo suo mi spronava ad alzare ancora di più l’asticella. Per questo non solo ho i piedi per terra, li ho direttamente sotto il terreno piantati come radici. L’’io, io, io’ non mi appartiene, il wow di sottofondo ha poco valore perché oggi ti considerano il migliore, domani arriva un altro più bravo e ti scalza. Io sto bene da solo, quando pesco con i miei figli, mentre medito o guardo il lago d’Orta dalla finestra.

La scorsa settimana è stata presentata la Guida Michelin 2021. Da mesi i bookmakers davano per certa la terza stella per Villa Crespi e invece non è arrivata: c’è rimasto male?
Sarei falso a dire il contrario. Dal 2010 se ne parla e invece anche quest’anno è un nulla di fatto. Ma dopo ventidue anni a Villa Crespi non ho perso l’entusiasmo e la voglia di migliorare: guardo avanti penso che prima o poi arriverà.

Che impressione le ha fatto l’uscita dalla guida di un grande come Davide Scabin?
Non so come sia andata, dunque non giudico. Ma penso che Scabin sia tra i tre migliori chef d’Italia: la sua testa ce l’hanno pochi, faceva vent’anni fa cose che in molti fanno adesso. Lo stimo molto e tra qualche giorno lo chiamerò.

Capitolo MasterChef 10, al via dal 17 dicembre sempre su Sky uno e Now Tv. Che edizione sarà?
Ero preoccupato mentre lo giravamo, temevo che la seconda ondata di Covid lo avrebbe fatto invecchiare in fretta. Invece gli autori hanno avuto delle idee geniali che, se possibile, hanno persino migliorato il programma. Con Zoom per esempio siamo entrati direttamente nelle cucine degli aspiranti concorrenti, li abbiamo visti all’azione nel loro mondo, abbiamo sbirciato tra le loro attrezzature e da questo abbiamo capito molte cose: è stato un vantaggio per noi giudici.

Altre novità?
Non posso dire molto. Ma ad esempio alle selezioni non hanno potuto portare nulla di pronto da casa e questo ha permesso di stanare subito i bluff: tutti hanno fatto la spesa in dispensa e cucinato davanti a noi, così i bravi li abbiamo adocchiati da subito.

Con Bruno Barbieri e Giorgio Locatelli come vanno le cose?
L’anno scorso è stata la prima volta in tre dopo l’uscita di Cracco e Bastianich, due colonne del programma, e quella di Antonia Klugmann. Quest’anno abbiamo funzionato ancora meglio perché tra noi c’è grande complicità: quando c’è l’aria leggera del divertimento, il prodotto esce meglio e più fresco.

Non posso non chiederle della morte di Maradona. Che cosa ha rappresentato per lei?
Ho avuto la sensazione di aver perso qualcuno di caro, di vicino a me. Forse chi non nasce e vive a Napoli non può comprendere questo lutto così forte: quando giocava e vinceva con il Napoli, regalava attimi di felicità, faceva scomparire i problemi di tutta la città. Maradona è stata la nostra rivincita, l’urlare “noi c’abbiamo Maradona” era qualcosa di incredibile. Me lo ricordo ancora quando avevo dieci anni e mio zio mi portò allo stadio a vedere il Napoli: “Guardalo bene, quello è Maradona”.

Nel 2006 venne da lei a sorpresa a Villa Crespi: tre giorni indimenticabili, tra spaghetti alla genovese e l’assalto dei fan.
Mi chiamavano i giornalisti da mezza Italia e io rispondevo a tutti: “Ma no, figurati, è una bufala, non è qui”. Diego mi aveva chiesto di non dire della sua presenza e io rispettai la sua privacy. Quando si venne a sapere che effettivamente era mio ospite, in mezz’ora c’era la folla di gente davanti ai cancelli.

Il ricordo più intimo?
Di una persona buona, di cuore. L’unico strappo alla regola che mi concessi fu sedermi al tavolo con lui: prima di allora avevo cenato una sola volta a Villa Crespi, il giorno del mio matrimonio, e non mi ero mai seduto a tavola con un cliente. Ma lui era speciale, era Maradona, il mio idolo.

Ultima domanda: dopo questa seconda ondata di Covid, quanto ci metterà la ristorazione italiana a ritornare ai livelli di prima?
Impossibile fare previsioni perché dopo un blackout così non possiamo ripartire al volo, ma tra qualche mese dobbiamo per forza tornare ad essere più forti di prima. La voglia di fare bene c’è, la speranza nel vaccino anche, ma ci vogliono più certezze: dire “riapriamo i ristoranti per il Natale” non basta. Per riavviare un’attività non basta scioccare le dita, ci vogliono cinque sei giorni di lavoro e soldi: è evidente che l’apri-chiudi ci fa solo male.

Servono scelte coraggiose?
Serve buon senso. Quando leggo che ci sono attività chiuse da mesi ma ugualmente costrette a pagare la tassa sui rifiuti, rido per non piangere. Nessuno ha la bacchetta magica, lo so, ma lo Stato deve aiutare chi è rimasto indietro, chi non ce la fa ad arrivare alla fine del mese. Per il resto dico: basta con le polemiche a getto continuo, basta seminare odio. Abbiamo bisogno di serenità per costruire un futuro migliore da lasciare ai nostri figli.

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