Dal primo gennaio i giocatori dell’Unione Europea che vorranno trasferirsi in Gran Bretagna saranno equiparati ai calciatori provenienti dai Paesi terzi. I parametri per ottenere i visti sono complessi e ancora più complicato sarebbe l'acquisto di giocatori Under 18: affari come Kante o Pogba sarebbero saltati. Le società chiedono regole ad hoc, ma per ora la Federazione non molla: è convinta di poter rilanciare il vivaio nazionale
L’allarme è stato lanciato ormai da tempo. Eppure per capire quali saranno le reali conseguenze bisognerà aspettare poco più di un mese. Perché la Brexit rischia di avere effetti dirompenti sulla Premier League. E di farle perdere lo scettro di torneo più importante del mondo. O almeno questo è il timore dei 20 club che compongono il torneo di Sua Maestà. Una paura più o meno giustificata che si è trasformata in una dura battaglia fra la FA e le società calcistiche. Il motivo è piuttosto chiaro: dal primo gennaio, infatti, i giocatori dell’Unione Europea che vorranno trasferirsi in Gran Bretagna saranno equiparati ai calciatori provenienti dai Paesi terzi. Tradotto in pratica significa che, per poter giocare nel Regno Unito, i calciatori dovranno ottenere un permesso di lavoro. Proprio come accade per le altre categorie produttive. Un dettaglio che rischia di creare enormi grattacapi ai club interessati a chiudere un trasferimento.
Perché ottenere il permesso di lavoro non è poi così immediato. Anzi, la BBC ha dimostrato che solo quattro stagioni fa 332 calciatori fra Premier League, Championship e Scottish Premiership non sarebbero rientrati nei parametri per richiedere il visto. La procedura, infatti, è piuttosto complicata. Per ottenere in maniera automatica il permesso di lavoro un calciatore deve aver giocato un certo numero di partite in nazionale (anche in quelle giovanili) nei due anni precedenti alla domanda. E questo coefficiente varia in base al ranking Fifa: per le prime 10 nazionali è sufficiente il 30% delle presenze, per quelle in fondo alla classifica è necessario addirittura il 75%. Nel caso in cui un giocatore non riuscisse a ottenere automaticamente il visto, allora può chiedere che la sua domanda venga esaminata da una speciale commissione. Fra i criteri oggettivi che vengono presi in considerazione ci sono il valore virtuale di trasferimento del richiedente, il suo stipendio e la sua storia calcistica.
Se queste norme venissero confermate, la Premier League avrebbe serie difficoltà ad acquistare i migliori talenti emergenti. Basti pensare che due giocatori come N’Golo Kante e Riyad Mahrez non avrebbero avuto le carte in regola per ottenere il visto: quando il Leicester li ha acquistati da Caen e Le Havre i due non giocavano regolarmente in Nazionale e avevano stipendi bassi e valutazioni di mercato non eccezionali. In questo caso ad andare in difficoltà sarebbero soprattutto i piccoli club. Perché mentre le big potranno continuare senza problemi ad acquistare i (presunti) top player, le società con un budget più limitato potrebbero essere costrette a pescare in un bacino molto più ristretto, finendo per acquistare per lo più giocatori del Regno Unito.
Ma non finisce qui. Perché i club britannici partirebbero in una posizione di svantaggio anche nella corsa ai giovani talenti. La Fifa proibisce il trasferimento di giocatori con meno di 18 anni fra due club di Paesi diversi. Un limite che, nel caso di Stati dell’Unione Europea (o dello Spazio Economico Europeo) si abbassa ai 16 anni. Un privilegio che la Gran Bretagna perderà fra poco più di un mese. Per dare un’idea del problema è sufficiente dire che con la Brexit Fabregas non avrebbe potuto lasciare la Masia per accasarsi all’Arsenal, mentre Pogba non avrebbe potuto salutare il Le Havre per unirsi alle giovanili del Manchester United.
Il vero punto di rottura, però, è ancora un altro. E riguarda la percezione della Brexit. Da una parte la FA è fermamente convinta che si tratti di un’occasione unica per rilanciare i vivai in modo da garantire forze fresche a una Nazionale che ha vinto un solo Mondiale, nel 1966. Dall’altra i club temono di perdere la posizione dominante ottenuta grazie alla generosa pioggia di milioni arrivata negli ultimi anni dai diritti televisivi. Il terreno di battaglia è quello della composizione della rose, che al momento non possono superare i 25 elementi. La Fifa prevede che ogni club debba avere un mimino di 8 giocatori “locali”, ossia che abbiano giocato per tre stagioni nello stesso Paese (quindi un calciatore di 18 anni che si trasferisce in Inghilterra non potrebbe essere considerato “locale” prima dei 21 anni). La Federcalcio vorrebbe aumentare questa quota, portandola a 13 calciatori per ogni rosa. Uno sbarramento che dovrebbe consentire la crescita dei giovani calciatori britannici.
“La Brexit è un’opportuna per lo sviluppo dei nostri talenti che troppo spesso sono bloccati da calciatori stranieri mediocri”, ha affermato la FA in un rapporto dello scorso gennaio. Peccato però che la Premier League non sia dello stesso avviso. “Le misure proposte dalla FA finiranno per ridurre la qualità del campionato – hanno risposto i club, che hanno minacciato di portare la faccenda in tribunale – e di conseguenza il valore economico globale del prodotto. Se si impoverisce la Premier, si impoverisce tutto il calcio, serie minori comprese. La proposta della FA è troppo radicale”. Così i club hanno inviato una loro controproposta. Si tratterebbe di instaurare un regime di “visti speciali” per gli atleti professionisti o, ipotesi più percorribile, trovare un accordo sulla composizione delle rose. Secondo la Premier League ogni club potrebbe avere in rosa 10 giocatori “locali”, 12 stranieri con regolare permesso di lavoro e 3 calciatori acquistati anche derogando a questi vincoli. La trattativa è ancora ferma, ma le parti sanno perfettamente di non avere più tempo a disposizione. E il rischio è quello di perdere terreno rispetto agli altri club europei.