Michela Accerenzi è entrata nel mondo della cooperazione 16 anni fa. É passata da Santo Domingo, Ecuador, Bangladesh, Gambia. Da quattro anni vive a Santa Rosa de Copàn, dove aiuta le donne vittime della violenza di genere. Ma non solo
Fin da piccola ha sognato di viaggiare e conoscere altre culture. E durante l’adolescenza, e più ancora in epoca universitaria, ha maturato la “voglia di contribuire ad una maggiore giustizia sociale”. Per Michela Accerenzi, 42enne di Cremona, la strada era già segnata. “Sia i miei studi, sia la mia curiosità naturale – racconta – mi hanno spinto a chiedermi la ragione di tanta povertà nel mondo. Ho capito che le cause sono strutturali e storiche, e qualsiasi nostra azione può portare ad un cambiamento”. Entrare nel mondo della cooperazione, 16 anni fa, ha significato per lei “portare un granello di sabbia in più”. Il granello di sabbia l’ha portato un po’ dappertutto.
Laurea in Scienze Politiche, master a Tor Vergata a Roma e poi si parte: Santo Domingo, Ecuador, Bangladesh, Gambia. Da quattro anni vive a Santa Rosa de Copàn, 45000 abitanti nell’ovest dell’Honduras, dove aiuta le donne vittime della violenza di genere. Ma non solo. Come coordinatrice della ong Fondazione Etea si occupa infatti della supervisione di tutti i progetti che vengono implementati nella regione: sviluppo rurale, sicurezza alimentare, prevenzione di conflitti, formazione in intelligenza emozionale nei centri scolastici (ossia la capacità di gestire le emozioni), energie rinnovabili, sostegno alle piccole imprese, ricerca universitaria.
“Prima del lockdown – afferma Michela – passavo la metà del tempo in viaggio tra i progetti che Etea sviluppa in Honduras, El Salvador, Nicaragua e Guatemala. Da marzo, invece, non mi sono più potuta muovere e lavoro da casa”. L’Honduras ha optato per un chiusura totale per mesi, poi una timida riapertura ma con molte restrizioni (mascherina sia in spazi aperti che chiusi; solo in casa si poteva togliere se c’erano meno di 10 persone). “Ora possiamo fare la spesa ogni dieci giorni con una sorta di salvacondotto rilasciato dalla polizia”.
In Honduras a povertà si è aggiunta povertà: “Le persone che hanno perso il lavoro si sono organizzate a vendere frutta e verdura per sopravvivere”. Ma la curva dei contagi non è mai scesa nonostante il lockdown. Motivo? “Le misure adottate sono state ingiuste e impossibili da rispettare per molti, stante l’alta precarietà della vita”. Il Paese deve altresì fare i conti con le condizioni del sistema sanitario nazionale, “che non è stato rafforzato ed è di scarsa qualità”, la disoccupazione, “che è aumentata esponenzialmente”, le scuole che sono ancora chiuse e per cui “non esiste ancora una proposta per riattivare l’educazione”. Solo il 20% degli studenti ha accesso al computer, spiega la cooperante, mentre la maggior parte può solo sperare di ricevere compiti via whatsApp. E probabilmente quasi la metà degli studenti perderà l’anno. “Purtroppo la pandemia – aggiunge Michela – ha colpito un contesto molto vulnerabile: l’Honduras è uno dei luoghi più poveri del mondo, per di più oggi governato da un presidente accusato di corruzione”. Inoltre, con le inondazioni e gli uragani delle ultime settimane, che hanno colpito Nicaragua e Honduras, “i dati sul Covid sono ancora meno precisi del solito, ma si sa già che in tutti gli alberghi e nelle zone inondate stanno crescendo ancora, più di prima. É impossibile mantenere le distanze e usare dispositivi di protezione“.
La pandemia poi, chiarisce Michela, ha peggiorato la condizione delle donne per le quali è aumentato il carico di lavoro. “In casa tutto è sulle loro spalle: dalla cura dei minori a quella degli anziani, ai disabili”. Poi la disoccupazione, “già altissima tra le donne, che le ha lasciate senza lavoro e senza indennizzi”. E ancora: difficoltà a pagare debiti e a ottenere prestiti. Sintetizza Michela: “Siamo di fronte alla femminizzazione della povertà”. Durante il Covid, dice ancora la cooperante cremonese, c’è stato un deficit di attenzione alla salute della donna, sono aumentate le violenze in famiglia con la conseguente crescita di gravidanze indesiderate e malattie trasmesse sessualmente. Nonostante questo, in Centro America Michela sta bene: “Ho la sicurezza di un lavoro che mi piace e una rete sociale che mi sostiene. Ho la possibilità di circondarmi di persone splendide, visitare piantagioni di caffè e cacao, condividere una giornata con contadini e contadine. Qui c’è una ricchezza culturale e naturale che trova pochi eguali nel mondo”. Certamente, precisa, bisogna rinunciare ad alcune comodità che in Italia diamo per scontato, dall’elettricità all’acqua calda.
Michele ammette che a mancarle sono la famiglia e gli amici, ma è convinta che “tutte le persone dovrebbero passare più tempo all’estero. Non da turisti, ma per capire le differenze culturali. Troppo spesso osserviamo i paesi impoveriti come fossero inferiori, quando invece la situazione è frutto di secoli di dominazione politica, economica e psicologica. Grazie al mio lavoro ho potuto conoscere la tenacia e la capacità di resilienza di persone che vivono in situazioni inimmaginabili per noi in Europa”.