di Riccardo Germano (fonte: lavoce.info)

L’emergenza sanitaria ha accentuato la crisi del sistema penale, ma le prospettive di riforma non possono ignorare un problema di fondo: i condannati “non paganti” sono troppi. Come ridurre il contenzioso, coniugando giustizia sociale e utilità economica

La prevalenza della pena detentiva

La pandemia da Covid-19 amplifica i problemi strutturali del sistema penale italiano. Rinvii e sospensioni processuali produrranno aumenti delle pendenze penali, con una ulteriore frustrazione delle aspettative di giustizia di indagati, imputati e persone offese, che va ad aggiungersi a quella già attestata dalla durata media del procedimento penale italiano, che spicca (in negativo) fra i paesi del Consiglio d’Europa.

Sul versante sostanziale, “vengono al pettine” i nodi di un sistema sanzionatorio ancora monopolizzato dalla pena detentiva, ma percepito come largamente ineffettivo, che costringe a continui interventi legislativi per alleggerire la “pressione carceraria” (da ultimo, il decreto legge 137/2020). Oltre al mancato investimento nell’edilizia penitenziaria, si paga la scelta di non diversificare le tipologie di pena: quella pecuniaria, in particolare, continua a rimanere inesplorata. È possibile che pesi qui l’incapacità di risolvere un problema propedeutico a ogni discorso di riforma: è un problema di free riding.

I condannati “non paganti”

Il tema della mancata o infruttuosa riscossione delle pene pecuniarie inflitte ai condannati è già stato meritoriamente portato all’attenzione dell’opinione pubblica. Si tratta della situazione per cui una larga parte dei “fruitori” del servizio della giustizia penale (nei confronti dei quali si è approntato un sistema di costose garanzie processuali) non paga per i reati commessi e accertati con sentenza definitiva. Questa parte si comporta, cioè, da free rider.

La cosa mina alla radice la legittimità dello stato di diritto come comunità solidale di individui, se si considera che, mentre il contribuente è soggetto a un’imposizione fiscale per attività economiche lecite (imposizione che peraltro finanzia il servizio della giustizia penale), l’imposizione di origine penale a carico di chi realizza condotte illecite, in spregio al “patto sociale”, viene largamente disattesa. Se ci sono vittime di reato “in carne e ossa”, poi, l’iniquità è doppia: alla violazione dei propri diritti e alla successiva “vittimizzazione secondaria” da processo, segue l’impunità dell’autore del reato.

C’è però una seconda variante del fenomeno, con implicazioni processuali. Un’altissima percentuale dei ricorsi per Cassazione sono dichiarati inammissibili: in parole povere, non dovrebbero essere proposti. Nei fatti, la mole di questi ricorsi (sconosciuta a sistemi giuridici di altri paesi avanzati, come la Spagna o la Francia) comporta una sottrazione di tempo e risorse alla trattazione dei ricorsi ammissibili, cioè contribuisce indirettamente alla lesione delle aspettative di giustizia di imputati e altre parti private che ricorrono in Cassazione legittimamente.

Anche in questo caso, la poca evidenza disponibile è nel senso che le “spese di giustizia”, tra cui le sanzioni pecuniarie alle parti private per l’inammissibilità del ricorso, raramente vengono riscosse. Di nuovo: una parte dei “fruitori” della giustizia penale (essenzialmente imputati che, per l’inammissibilità del ricorso, diventano condannati in via definitiva) si comporta da free rider, accollando il costo delle proprie azioni ad altri individui e, più in generale, alla comunità (dei contribuenti).

La proposta

La risoluzione del problema può presentare due risvolti: di giustizia sociale, poiché si eliminerebbe l’intollerabile disparità di trattamento tra free rider e individui rispettosi del “patto sociale”; di utilità economica, poiché l’introito derivante da pene e sanzioni (o da una parte di esse) sarebbe destinabile ad aumenti di risorse e organici. Se, poi, fosse destinato a un innovativo sistema di rifusione delle spese processuali degli assolti in via definitiva, giustizia sociale e utilità economica andrebbero a braccetto.

Quanto all’effettiva riscossione delle pene pecuniarie in caso di insolvibilità, vera o artefatta, si dovrebbe disporre l’automatica conversione in attività che mantengano una portata dissuasiva, oltreché rieducativa: l’attuale libertà controllata (articolo 102, legge n. 689/1981) non costituisce un adeguato disincentivo all’inadempimento. È opportuno superare gli esiti della sentenza della Corte costituzionale (n. 131/1979) che dichiarò l’illegittimità del sistema di conversione in pena detentiva. D’altronde è la stessa Corte a invitare il legislatore a “restituire effettività alla pena pecuniaria”, rimediando al “farraginoso” meccanismo di enforcement. Fatto questo, la strada per un minor ricorso alla pena detentiva, a vantaggio di quella pecuniaria (come già accade in diversi paesi europei), sarebbe aperta.

Quanto, invece, al problema dei ricorsi, si dovrebbe introdurre un sistema di deposito cauzionale per la loro presentazione, da trattenersi definitivamente in caso di inammissibilità. La prevedibile riduzione del contenzioso e, a catena, dei tempi processuali, andrebbe a beneficio di chi nutre ragionevoli aspettative di giustizia, scoraggiando i tentativi di rinviare (a spese altrui) l’esecutività della sentenza di condanna.

All’obiezione sui temuti risvolti “classisti” di queste misure, si replica con l’individualizzazione della pena e della cauzione sulla base di stime reddituali, non certo tollerando i free rider, come avviene ora.

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