Dieci anni fa il grande regista sceglieva di morire. Nella sua lunga carriera ha saputo raccontare l’Italia meglio di tutti, con un’ironia amara e a volte feroce. L’ha fatto per oltre settant’anni, con quasi cinquanta pellicole, ma con un film in particolare è riuscito a inventare un genere a conquistarne il cuore del suo pubblico
Il 29 novembre 2010 Mario Monicelli se ne andava. Nella sua lunga carriera ha saputo raccontare l’Italia meglio di tutti, con un’ironia amara e a volte feroce. L’ha fatto per oltre settant’anni, con quasi cinquanta pellicole, ma con un film in particolare è riuscito a inventare un genere a conquistarne il cuore del suo pubblico: I soliti ignoti, il primo atto della Commedia all’italiana.
Come nasce un capolavoro – Parlare di Monicelli e dover scegliere un unico film è come entrare in una pasticceria e potersi concedere soltanto un bignè. E la similitudine non è casuale, visto che proprio tra le caffetterie di Roma nacque l’idea de I soliti ignoti. Il regista e i suoi sceneggiatori, infatti, avevano messo a punto un metodo di lavoro piuttosto particolare: ci si sedeva al tavolo di un bar di buon mattino e lì, tra un caffè e un piatto di pasta, si prendeva a chiacchierare. Di cinema, di politica, di donne… e piano piano la storia cominciava a camminare. Così per otto ore filate, destinando soltanto l’ultima mezz’ora della giornata ad annotare quanto detto su un taccuino.
Ad accompagnare Monicelli in queste “chiacchiere” c’era spesso Steno (Stefano Vanzina), ma in questo caso accanto a lui sedevano invece Age&Scarpelli e Suso Cecchi D’Amico. Era l’età d’oro della sceneggiatura italiana, un periodo dove le penne messe al servizio della macchina da presa erano tanto raffinate da poter competere con i romanzieri più celebri. E proprio il romanziere avrebbe voluto fare Monicelli, a cui il bernoccolo della regia era venuto soltanto nei primi anni universitari a Milano. Lui, nato a Roma ma cresciuto a Viareggio, un ramingo al seguito della sua famiglia.
Un genere nuovo – Il caper movie fu smitizzato e calato in un panorama che del neorealismo conservava l’aderenza alla miseria di un’Italia ancora lontana dal boom economico, senza però cedere alla lacrima o prendersi troppo sul serio. Era l’atto fondativo della Commedia all’italiana che avrebbe spopolato negli anni a venire. Anche se Monicelli allontanò sempre dal suo film quest’etichetta, dicendo piuttosto che tutte le opere di quel periodo erano figlie di Rossellini. La storia che venne a comporsi fu quella di un’allegra brigata di ladruncoli, più o meno improvvisati, pronti a mettere a segno il colpo della vita: svaligiare la “comare” (la cassaforte) di un banco dei pegni. Tra rocambolesche soffiate, gag e amori tanto goffi da riuscire a commuovere, per la prima volta nel cinema italiano comparve una colonna sonora jazz e una commedia portò in scena la morte violenta di un personaggio. Un piccolo, grande terremoto in grado di conquistare due Nastri d’Argento e una candidatura all’Oscar per il Miglior film straniero. Un racconto capace di scuotere lo spettatore tra risate e sorrisi malinconici, sino al celebre epilogo che – ispirandosi alla novella Furto in pasticceria di Italo Calvino – vedeva i nostri protagonisti abbandonare le velleità del furto e concedersi a una gustosa abbuffata di pasta e ceci. Per saziare lo stomaco, se non i dispiaceri.
Proprio Mastroianni soffrì forse un poco la natura corale della pellicola, sentendosi messo in ombra dai colleghi e arrivando a rifiutare la parte che fu poi di Ugo Tognazzi in Amici miei (1975). Eppure anche per lui I soliti ignoti restò un film del cuore. Perché è qui che più di tutti Mario Monicelli riuscì a raccogliere lo spirito di un’Italia intera: messa in ginocchio dalle cicatrici della guerra, ma capace di trovare una risata anche quando tutto sembrava spezzarsi.