Nel decennale della morte di Mario Monicelli desidero ricordare la figura straordinaria di uno dei registi che hanno fatto grande il cinema italiano. Sulla sua vita e sulla sua personalità rimando a quanto scritto da Chiara Rapaccini nel suo libro La bambina buona e in un articolo per La nuova antologia.
Chiara – scrittrice e autrice di fumetti per bambini – è stata per molti anni, e fino alla morte di Monicelli, la sua compagna, di vita e di lavoro. L’ho conosciuta a causa di una vicenda familiare. Nel marzo del 2004, a 72 anni, mio fratello Michele, malato terminale di leucemia, si è suicidato gettandosi dal quarto piano della sua casa a Roma. Da allora ho iniziato, nell’ambito della Associazione Luca Coscioni, una azione politica in favore della legalizzazione della eutanasia.
Sono riuscito a coinvolgere i congiunti di tre “suicidi illustri”: Luciana Castellina, per molti anni compagna di Lucio Magri, i figli di Carlo Lizzani, Francesco e Flaminia, e infine Chiara, che da allora continua ad essere con noi nei momenti più significativi di questa difficile battaglia. In particolare, nel 2014 scrivemmo, tutti insieme, una lettera aperta al Presidente Giorgio Napolitano, che ci rispose pubblicamente impegnandosi a premere sul Parlamento perché discutesse il tema delle scelte di fine vita (abbiamo provato a rifarlo con Mattarella, ma senza alcun segno di risposta).
La personalità di Monicelli che emerge dal ritratto che ne fa Chiara Rapaccini è quella di un uomo geniale, dalla vitalità straordinaria, con un carattere non facile ed una tendenza ai gesti clamorosi: come quando, ricoverato in ospedale dopo un grave incidente, fugge dal reparto avendo ancora l’ago in vena e torna a casa in autobus. E una instancabile attività, che lo porta fra l’altro (e Chiara con lui) negli angoli più sperduti del mondo. Litiga facilmente; qualche amico dice di lui che è un attaccabrighe. Ma è generoso e prodigo con gli sfortunati e gli indigenti.
Monicelli viene da una famiglia di intellettuali dal carattere forte e dalle idee avanzate. Anche a proposito del vivere e del morire. Lo ricorda Chiara nel suo libro: tutti i familiari erano convinti del fatto che a un certo punto – quando la vita non è più degna di essere vissuta – è giusto farla finita. Molti anni prima della morte, a Monicelli era stato riscontrato un tumore alla prostata allo stato iniziale. Tornati a casa, di fronte a Chiara che non riusciva a mangiare, gli chiese il perché. Alla risposta di Chiara (“è per la notizia che abbiamo avuto oggi”), Monicelli replicò. “E allora? Che sarà mai? Ho 77 anni, di qualche cosa dovrò pure morire, no ?”
Nel 1958, per incarico della Federazione Giovanile Socialista, organizzai, insieme ad un paio di compagni dell’università, il “Circolo di cultura cinematografica Aldo Vergano”, con sede in una palazzina dei Lincei a via della Lungara. La caratteristica del “Vergano” era quella di non proiettare singoli capolavori ma presentare cicli di film a tema (la Resistenza, la guerra, il razzismo e così via). Fra gli assidui frequentatori del nostro cineclub, Sandro Pertini e Riccardo Lombardi.
Nell’ambito di un ciclo di film sulla “commedia all’italiana” presentammo, nel marzo del 1962, I soliti ignoti e Monicelli (come fecero nel corso degli anni Lizzani, Pierpaolo Pasolini ed altri) ci onorò della sua presenza e si fermò per qualche minuto, alla fine del film, a chiacchierare con noi, partecipando al “dibattito” che io coordinavo, non presago della favolosa scena della rivolta di Fracchia. Una grande emozione, che si rinnovò in me l’anno dopo, quando Monicelli girò il film I compagni, che io considero, nella storia del cinema italiano, il più efficace omaggio alla sofferta nascita del socialismo umanitario.
Nella sua lunga vita, Monicelli ha girato una settantina di film, dando vita – fra l’altro – al grande filone della “commedia all’italiana”. Ironici, ma ad un tempo intrisi di tenerezza, i suoi film sulla famiglia, fra i quali spiccano Speriamo che sia femmina e Parenti serpenti. Esilaranti i suoi film dichiaratamente comici, a partire da Amici miei: un film in cui ognuno di noi ha ritrovato la propria “stagione degli scherzi”, con il rimpianto di non poterla vivere ancora una volta.
Credo che tutti – di fronte ad un autore così prolifico – abbiano difficoltà a indicare le opere che preferiscono. Personalmente, se chiamato a “salvare” tre film di Monicelli, sceglierei I compagni, per le ragioni cui ho già fatto cenno, Guardie e ladri e La grande guerra. Il primo per la capacità irripetibile di mescolare la comicità più sfrenata alla più profonda malinconia, grazie in gran parte alle strepitose interpretazioni di Totò e Aldo Fabrizi (ma dirigere bene gli attori, specie quelli celebri, è un dono esclusivo dei grandi registi). Il finale del film è una delle pagine più strepitose di tristezza e ad un tempo di umanità e di speranza.
Il secondo, La grande guerra, perché nessuno mai era riuscito a farci rivivere il mito della prima guerra mondiale mescolando alla perfezione comicità e tragedia, paura ed eroismo. Dimostrando ancora una volta di saper trarre il meglio da “mostri sacri” come Alberto Sordi e Vittorio Gassman e facendo prevalere su tutto – nei protagonisti come negli altri personaggi del film – il sentimento profondo della umanità. Ritengo che La grande guerra possa competere con i capolavori di Roberto Rossellini, di Vittorio De Sica e di Luchino Visconti, artefici della rinascita del nostro cinema dopo oltre venti anni di dittatura e di guerra. Riposa in pace, caro Mario, ci ricorderemo sempre di te.