Se un asset non è strategico, potrà comunque essere salvato in nome dell’italianità. O magari della difesa della democrazia e del pluralismo. È quello che potrebbe accadere per il caso Mediaset, finita nel mirino della francese Vivendi e per la quale il governo ha varato una norma che affida poteri speciali all’Autorità di vigilanza per le telecomunicazioni in caso di scalata. Non a caso sul giornale online Formiche dello scorso 24 novembre c’è chi delinea scenari inediti per l’azienda televisiva della famiglia Berlusconi, prospettando addirittura un intervento pubblico.
“Se non ha un costo eccessivo per i cittadini, garantire una società italiana rispetto ai francesi è una cosa giusta. No?”, ha dichiarato al giornale atlantista Emanuele Macaluso, già dirigente del Partito comunista italiano, ultimo erede della segreteria di Palmiro Togliatti, nonché ex direttore dell’Unità e del Riformista. “Contrordine compagni anche per il Biscione”, è stata la replica di Formiche cui Macaluso risponde sostenendo che dopo anni in trincea, a Berlusconi andrebbe l’onore delle armi: “Ormai Berlusconi ha un manipolo, non più un grande partito. Questa sua linea di sostegno condizionato al governo mi sembra una scelta ragionevole”.
Ragionevole e forse anche produttiva. Un risultato del resto lo ha già raggiunto con la difesa a spada tratta del gruppo di Cologno Monzese grazie all’emendamento salva-Mediaset. Voluto dal ministro pentastellato Stefano Patuanelli, l’intervento normativo ha infatti affidato all’Agcom l’incarico di vigilare su tutte le operazioni che possano mettere in discussione il pluralismo informativo nel Paese. Senza però tener conto che ormai il pluralismo informativo si basa su un mercato ben più grande di quello televisivo visto che internet ha ampliato a dismisura la possibilità di informarsi per i cittadini.
Come ha precisato il governo, del resto, l’emendamento ribattezzato salva-Mediaset, nasce dall’esigenza di colmare un vuoto normativo generato da una sentenza della Corte europea che ha dichiarato illegittima la legge Gasparri. E cioè la norma che vieta il possesso di quote di peso nel settore media e delle telecomunicazioni e in base alla quale l’Agcom aveva impedito a Vivendi, socio di Telecom Italia, di esercitare a pieno i suoi diritti di voto nell’assemblea degli azionisti di Mediaset. Ma, secondo Vivendi, la nuova norma è incompatibile con “il diritto internazionale e i principi fondamentali della Costituzione italiana“. In pratica il finanziere bretone ritiene si tratti di “un intervento ad personam” per impedire “il legittimo esercizio dei diritti di voto di Vivendi come azionista di minoranza”.
Non a caso il gruppo francese ha minacciato un ricorso in sede europea. Ma intanto la norma ha bloccato l’avanzata di Vivendi su Cologno Monzese che ha in corso con i francesi una serie di battaglie legali per ottenere un risarcimento da 3 miliardi per il dietrofront d’Oltralpe nella compravendita della pay tv Premium. Non si tratta di cifra da poco. Basti pensare che il valore di mercato di Mediaset a Piazza Affari di venerdì 27 novembre è di circa 2,3 miliardi. E la famiglia Berlusconi si è detta indisponibile a trattare con Vivendi senza un adeguato indennizzo per la mancata vendita di Premium. Denaro che i francesi non hanno alcuna intenzione di scucire.
Di qui lo scontro di fronte alla Corte europea per la Gasparri e l’emendamento salva-Mediaset che persino una vecchia guardia del Pci come Macaluso giustifica in nome della garanzia di italianità del gruppo. Il passo è breve per immaginare un intervento pubblico che potrebbe essere per lo Stato un primo passo per arrivare a far parte della compagine azionaria, magari attraverso la Cassa Depositi e Prestiti, di un gruppo media internazionale come Vivendi. Fantapolitica o realtà?