CROCE DEL SUD - 3/3
È la seconda volta che ospitiamo in un anno Claudio Magris sullo Scaffale dei Libri. E sia scritto a luci intermittenti: vorremmo ospitarlo tutte le settimane. Centellinate quindi il già succinto Croce del Sud (Mondadori), brevilineo e compatto volume in tre atti. Tre capitoli (quello al centro è snello e baldanzosamente herzoghiano) di una navigazione letteraria appassionata, tenace, vorticosa attorno a tre “vite vere e improbabili” che si sono spinte in un “laggiù” sudamericano, tra Cile e Argentina, e poi verso la Terra del Fuoco e l’Antartide, tra metà ottocento e inizio novecento. Un’arcaica, indigena, pionieristica Divina Commedia, latitudine su latitudine, non verso un basso oscuro e buio, ma verso un abbacinante luce di ghiaccio riflesso: “il grande mistero antartico, calamita gigante che attira inesorabilmente nel fondo. Ogni strato che si ritiene ultimo ne rivela sempre uno sottostante; pure ogni storia apre una botola verso altre storie più nascoste”. Dapprima l’arrivo da Trieste a Buenos Aires nel 1908 di Janez “Don Juan” Beniguar, avventuriero sloveno, scapolo, operaio, che diventerà antropologo, contadino,filosofo, sposo, enciclopedico linguista del popolo indigeno, ma prima di tutto araucano e patagone. “Don Juan ha oltrepassato oceani, fiumi, montagne, città, ma è rimasto uno stanziale; non uno che sparisce all’orizzonte ma uno che fonda famiglia e comunità, che traccia mappe, costruisce ponti e dighe, è a disposizione di tutti. Instancabile e generoso, e probabilmente pure pedante e rompiscatole, professore mitteleuropeo sotto il poncho e il cappellaccio”. Poi c’è l’avvocato francese folle e donchisciottesco, tal Orelie-Antoine de Tounens, autoproclamatosi in solitaria, attorno al 1860, re di Araucania, magrisianamente già da Valparaiso quando scruta l’orizzonte delle foresta facendo immaginare la leggenda. “Siede al caffè guardando il mare, ascoltando le grida dei pescatori e dei marinai; studia lo spagnolo e il mapudungun, si fa crescere la barba e i capelli, indossa il poncho, infila una sciabola nella sella del suo cavallo, raccoglie le voci sugli scontri tra soldati cileni e araucani e le dicerie, riprese dagli stregoni della foresta, sul prossimo arrivo di un uomo bianco destinato a mettersi alla testa degli Araucani contro il Cile e a ridar loro la libertà, quasi a rovesciare l’immagine del blanco avido de oro di cui parlano tante testimonianze”. De Tounens verrà accolto tra gli indigeni, arrestato dai soldati, rinchiuso in prigione, considerato pazzo, di nuovo scarcerato, e ancora protagonista di nuovi andirivieni tra vecchio continente e Sud America. Infine Suor Angela Vallese dal Monferrato, in Patagonia attorno al 1880, con un monsignore ex garibaldino come superiore, sorella che “gli indios scambieranno per un pinguino” sempre più in profondità nel gelo antartico. Ed è proprio nel terzo capitolo che Magris disvela dolcemente l’umano ed egualitario spirito di gravità permanente della sua opera (“tutto avviene sempre e continua ad avvenire sempre, il vagito del neonato a Betlemme e il grido sul Golgota”), mostrandone la costruzione di trama e ordito, camouflage tra brandelli di verità storica ed invenzione favolistica baluginante, tra filo sotterraneo e teso di un’abitudinaria narrazione e la creatività intuitiva da divagazione letteraria dell’altrui. Magris impasta la creta del romanzo richiamando Verne, Chatwin, Sepulveda, Salgari, ma soprattutto, più si avvicina a quel “laggiù” geografico, più si immerge in Poe, Lovercraft e Daniele Del Giudice. In questo “specchio di milioni di chilometri quadrati di bianco, assoluto e insostenibile”, l’autore triestino ritrova infine la gioia di un lessico guizzante, austero, tenacemente antico, ma mai desueto (il verbo “agglutinare”, l’ “albedo”, la “chiarità”), quel piacere per la lingua che si fa, si compone, si materializza, mentre il racconto si svolge, che solo i grandi mostri della letteratura possiedono in natura, senza infingimenti, senza sforzi artificiosi. Voto: 10 (con o senza lode)