Se qualcuno aveva sperato che, sotto gli sguardi del mondo in occasione del vertice del G20 dello scorso fine-settimana, le autorità saudite avrebbero potuto decidere di porre fine all’incubo che da oltre due anni sta subendo la coraggiosa attivista per i diritti delle donne Loujain al-Hathloul, la risposta sprezzante e di sfida non si è fatta attendere.
Il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, un giudice di un tribunale ordinario ha deciso di trasmettere gli atti processuali al Tribunale penale speciale, l’organo giudiziario che si occupa di reati di terrorismo e il cui unico scopo è ridurre al silenzio i dissidenti mediante condanne a lunghe pene detentive emesse al termine di processi irregolari.
Fiaccata da un lungo sciopero della fame per protestare contro il divieto di avere contatti regolari con la famiglia, Loujain è comparsa in tribunale stanca e provata e si è limitata a leggere con la voce bassa e tremante quattro pagine di auto-difesa.
Loujain è stata arrestata nel maggio 2018 con altri 12 attivisti e attiviste per i diritti delle donne. La sua “colpa”? Aver rivendicato le riforme adottate in quel periodo: l’abolizione del divieto di guida per le donne e la parziale riforma del sistema del “guardiano”, il maschio di casa sovrintendente a ogni aspetto della vita delle familiari.
Con Loujain sono sotto processo Samar Badawi, Nassima al-Sada, Nouf Abdulaziz e Maya’a al-Zahrani.
Nassima al-Sada e Samar Badawi sono state arrestate nell’agosto 2018. Badawi, oltre ad aver preso parte alla campagna per porre fine al divieto di guida per le donne, si è spesa per chiedere la scarcerazione di suo marito, l’avvocato per i diritti umani Waleed Abu al-Khair, e di suo fratello, il blogger Raif Badawi. Al-Sada ha svolto per molti anni campagne per i diritti civili e politici, i diritti delle donne e quelli della minoranza sciita della Provincia orientale dell’Arabia Saudita.
Nouf Abduaziz, blogger e giornalista, è stata arrestata nel giugno 2018. Lo stesso è accaduto all’attivista Maya’a al-Zahrani, che aveva pubblicato un post per chiedere la scarcerazione di Abdulaziz.