Ambiente & Veleni

L’alluvione di Bitti mette in luce due nodi della fragilità idrogeologica nostra e europea

Il disastro di Bitti inaugura un capitolo nuovo nella storia delle catastrofi alluvionali in Italia? Pur con pochi elementi di giudizio, la mia risposta a caldo è negativa. Non per il ricordo ancora vivo degli effetti al suolo della tempesta mediterranea Cleopatra del 2013, ma perché saltano agli occhi due nodi fondamentali della fragilità idrogeologica non soltanto sarda, ma anche italiana ed europea.

“Piove sul bagnato: lagrime su sangue, sangue su lagrime”, scriveva Giovanni Pascoli più di un secolo fa. Meno lontana nel tempo, When it rains, it really pours è il titolo di uno dei primi successi di Elvis Presley: “Solo tu conosci i miei guai”. E i guai che si ripetono in modo ossessivo sono due.

Il primo è l’auto, meglio se un mastodontico Suv. I veicoli rischiano di trasformarsi in carri funebri, quando interferiscono con eventi idrologici a rapida evoluzione e violento impatto. E ciò accade regolarmente di fronte ai flash flood (piene rapide e improvvise) e i debris flow (colate detritiche) specie se accompagnati da woody debris, dovuti a cospicuo sradicamento e forte mobilizzazione della vegetazione arborea.

I disastri degli ultimi vent’anni – dall’Europa mediterranea al Texas, alla Louisiana, al Colorado – testimoniano che quando un uomo in auto incontra un fronte d’acqua e fango e detriti, è un uomo morto. E l’alluvione genovese del 1970 fu il primo archetipo, vissuto in prima persona, delle auto sulle strade portate in processione da una lama d’acqua torbida, marrone.

Il secondo guaio sono le coperture: l’alluvione genovese del 1970 e le successive puntate del serial – stessa storia stesso posto – sono diventate un testimonial a livello mondiale di questo guaio. Se una moderna e discutibile vulgata chiama bomba d’acqua ogni tempesta mediterranea, le coperture di fiumi e torrenti sono mine d’acqua, ben più pericolose delle bombe. Secondo un rapporto dell’Onu, le mine antiuomo ammazzano una persona all’ora, la metà sono bambini, anche a guerra finita. Ed è più facile ripararsi dalle bombe che evitare le mine, vuoi belliche vuoi d’acqua.

A Bitti, se un reticolo idrografico c’era mai stato, ora non c’era più (vedi Figura 1). E le conseguenze sono sempre le stesse. Quelle che ho osservato dal vero in Liguria, Piemonte, Lombardia e Calabria; le stesse che guardo su video scientifici e spot mediatici ogni volta che eventi idrologici siffatti colpiscono centri urbani che hanno dimenticato i loro fiumi, grandi o piccoli che siano, come successo a Bitti (vedi Figura 2).

Il rischio alluvionale è composto da tre fattori: la pericolosità, più o meno naturale e nel caso delle coperture assai poco naturale, l’esposizione dei beni e dei patrimoni a rischio, e la vulnerabilità del territorio. La scienza insegna che bisogna agire contemporaneamente su questi tre fattori, parimenti importanti. Le politiche che hanno governato la difesa del suolo in Italia, hanno ignorato finora questa evidenza, privilegiando le opere di ingegneria finalizzate a diminuire la pericolosità. E i commenti post-Bitti di politici e tecno-burocrati cantano ancora questa melodia, armonizzata sull’hard style.

Per capire queste politiche bisogna, come sempre, seguire il profumo dei soldi, giacché la scelta hard mette in moto risorse ben visibili e negoziabili. Nello stesso tempo, le soluzioni hard innescano anche impasse imbarazzanti come nell’Olbiese, senza andare troppo lontano da Bitti. Anzi, perfino divertenti in quanto farseschi: qualche volta meglio non far nulla che far male, ma non far nulla ha potenzialmente conseguenze assai spiacevoli; in prospettiva, disastrose.

Assieme a una effettiva riduzione del consumo di suolo, bisogna delocalizzare gli elementi a rischio laddove non sia fattibile, né economico e neppure ragionevole difendere questi elementi, perché indifendibili sia con misure strutturali, sia con azioni non strutturali.

Oggi il Recovery fund è oggetto delle fantasie hard più spinte da parte dei soggetti pubblici e privati, seduti al tavolo del Monopoli che stabilirà il destino di queste risorse. Un cambio di paradigma – prima il piccone, poi la cazzuola – può anche declinare il Recovery fund come un mezzo per realizzare il great sustainable reset, invocato non da un comitato ecologista malato di nimby, ma dal World Economic Forum.

Tutto ciò richiede strumenti consapevoli di governo del territorio, un obiettivo particolarmente difficile in un paese dove gli edifici e la facoltà di edificare sono sacri doni, eterni e indiscutibili; e le concessioni demaniali un privilegio di casta. Ma non è concepibile che la comunità si rifiuti di trovare meccanismi idonei ed equi per praticare la delocalizzazione, perfino in casi tanto clamorosi quanto eclatanti. Anche se in rari casi, qualche volta ci è già riuscita.