Caltanissetta, entroterra siciliano, un pomeriggio qualunque. Salomon, originario del Ghana, viene caricato a forza in una macchina. Un gruppo di pachistani gli punta un coltello alla gola e lo obbliga a commettere un furto in una casa di campagna. Il migrante è spaventato, denuncia, ma i suoi aguzzini non mollano e cominciano una caccia all’uomo armati di pistola e lame affilate. Agiscono senza scrupoli e con tanta violenza. Non è Cosa nostra ma è alla mafia e ai suoi modelli criminali che una banda di pachistani si sarebbe ispirata per dettare la propria legge nell’area nissena. Vittime predilette migranti e connazionali. Per uno di loro, Adnan Siddique, l’epilogo più triste con l’uccisione, a coltellate, avvenuta lo scorso 3 giugno. Sono solo alcuni degli aneddoti contenuti nei documenti dell’inchiesta Attila, portata a termine da polizia e carabinieri su delega della procura con i magistrati Chiara Benfante e Massimo Trifirò.
Undici persone in carcere, tutte pachistane, e una, l’unica italiana, agli arresti domiciliari. Un’organizzazione radicata e strutturata che avrebbe fatto del caporalato e dello sfruttamento del lavoro nei campi, soltanto una parte della propria attività illecita. In mezzo sono finiti sequestri di persona, estorsioni, rapine e diversi pestaggi. Al vertice, secondo gli inquirenti, ci sarebbe stato Muhammad Shoaib, già in carcere con l’accusa di avere ucciso Adnan insieme ad altri sodali. Il boss della gang pachistana sarebbe stato un personaggio temuto: “Si vantava di essere il padrone della città al quale nessuno osava opporsi”, racconta una delle vittime alla polizia. “C’è una vera e propria banda – continua a verbale – che diffonde il terrore nel territorio”.
Shoaib e soci potevano permettersi tutto. Anche una spedizione punitiva all’interno della comunità per minori non accompagnati I Girasoli, nel territorio del comune di Milena, sempre in provincia di Caltanissetta. Obiettivo punire un ragazzino per qualche parola di troppo rivolta, il giorno prima, a un altro minorenne amico della banda. All’interno della struttura, gli uomini del clan avrebbero scatenato il panico, entrando armati di pistola e coltelli, ma con la vittima designata, secondo la ricostruzione, che sarebbe riuscita a fuggire lanciandosi da una finestra. Peggio sarebbe andata ad altri due ospiti, raggiunti da una coltellata alla mano e da alcuni pugni.
Nell’elenco delle accuse ci sono pure tre tentativi di estorsione, avvenute a stretto giro tra 10 e il 31 maggio scorso. Il primo, con una richiesta di 300 euro, riguardava una sorta di compenso che un pachistano avrebbe dovuto versare al clan dopo essersi reso autonomo nella ricerca dei campi in cui andare a lavorare. Gli altri prevedevano invece il pagamento di 3000 e 5000 euro. In quest’ultimo caso, dopo avere fatto irruzione in una abitazione di Sommatino, il gruppo criminale avrebbe pestato la vittima “colpendola ripetutamente con dei bastoni alla nuca, alle gambe e alla schiena”. Subito dopo il migrante sarebbe stato caricato nella macchina del boss pachistano, un suv Chrysler, e condotto dentro una casa del centro abitato di Canicattì, riconducibile a un connazionale e alla sua compagna italiana, entrambi indagati. Dentro una stanza, vuota, la vittima è stata segregata per ore, accerchiata dagli aguzzini armati di coltello. “Intimandogli – si legge nei documenti – di chiamare il padre in Pakistan allo scopo di farsi consegnare 5000 euro per la liberazione”. Gli inquirenti sono riusciti a individuare l’immobile prigione grazie alla denuncia della vittima: “C’era una ragazza italiana – racconta – che parlava a voce alta dalla stanza accanto a quella dove mi hanno fatto entrare per picchiarmi”.
In questo sistema criminale c’è un capitolo riservato al caporalato. I pachistani sfruttavano i connazionali fungendo da intermediari con i proprietari dei campi in cui viene coltivata l’uva. Il compenso, massimo 30 euro per otto ore di fatica e sudore, spesso veniva decurtato per pagare la benzina. Per chi pretendeva quando gli spettava il copione avrebbe fatto sempre rima con violenze inaudite. Due migranti sarebbero stati pestati con bastoni ferrati e con i piedi di un tavolino nei pressi della casa del boss Shoaib. Chi è finito in questo vortice criminale però ha scelto sempre la strada della denuncia. A metterlo chiaramente nero su bianco è anche il giudice per le indagini preliminari: “Le vittime – scrive – non mostravano nessun atteggiamento omertoso o diffidente come spesso si verifica invece nelle indagini di mafia”. Una lezione nel nome di Adnan, ucciso soltanto perché aveva scelto di ribellarsi e aiutare i suoi connazionali sfruttati.