di Renato Turturro *
L’accento veneto nasconde la cadenza ereditata dai suoi genitori e dalle infinite relazioni che la comunità, sparsa e silenziosa, conserva. Ha stampato in volto il sorriso allegro e spavaldo del ventenne contemporaneo, ascolta spesso la musica con gli auricolari, segue il calcio, ha un taglio di capelli da rapper, pantaloni con molla stretta sulle caviglie e tasconi, il fumo della “paglia” lo avvolge mentre cammina. Un tipo che un ministro potrebbe definire “choosy”.
Finite le scuole superiori, decide di fare qualche corso di formazione professionale, e, tra l’invio compulsivo di mail senza risposta e l’iscrizione alle varie agenzie interinali, prova a trovare un lavoro. Come tutta la generazione del lavoro a mosaico, alternato, spezzettato, si arrangia come può, rimbalzando tra i giorni senza fine e i giorni dell’attesa.
Sajmir è un nome importante per la cultura di provenienza della sua famiglia, significa “il giusto”. È nato in Italia, è il figlio della tranquillità dopo la diaspora, una delle tante nella storia di questo popolo. “Gjaku shprishur” – “Sangue sparso”, usano dire i vecchi.
Suo padre gli racconta spesso di come Brindisi non spense le luci e non chiuse le porte per tre giorni quando arrivarono in 25mila. E questo continuò per i tutti i giorni in cui le scie di barche e navi sembravano non terminare mai. Videro la solidarietà alzarsi ad ogni alba. È il ricordo più bello di quello strano ed epocale approdo, il brutto lo custodisce nell’oblio dei silenzi, mentre le immagini di quei giorni scorrono sullo schermo della tv.
Suo zio Shkëlqimi, invece, gli racconta spesso di quanto era grande il sogno dell’altrove, annusato in due o tre in una stanzetta scura o in una cantina, o dietro l’ombra di un muretto su una strada impolverata, attraverso la voce della radio italiana. Le canzoni, le conversazioni, i notiziari, erano le fonti di apprendimento dei rudimenti della lingua italiana. Azioni e desideri accompagnati dal fascino del proibito e dalla consapevole paura di quel che potevano costare durante la fine del regime dei “non allineati”.
I suoi genitori finita l’accoglienza si spostarono in Veneto, bisognoso di braccia nelle varie attività produttive disseminate nel territorio. Era il tempo della confusione che la prima grande ondata migratoria creò nell’immaginario di alcuni territori in Italia, e tra un “albanesi di merda” e l’altro trovarono un alloggio e poi, entrambi, il lavoro. Operai.
Nello stesso tempo, approfittando del caos da deregolamentazione, un flusso contrario portava imprenditori italiani ad aprire lì attività produttive. Flussi migratori e flussi di capitali. Ma torniamo a Sajmir.
Da un po’ di tempo lavora come operaio in una ditta che esegue lavori di installazione, manutenzione per le aziende agricole. Stanno lavorando all’installazione di un essiccatoio in un impianto di stoccaggio dei cereali presso un’azienda. Il proprietario è un ex consigliere comunale, uno di quelli che crea il consenso offrendo lavoro e accusava gli albanesi prima, e gli altri stranieri oggi, di qualsiasi crimine. Ma durante il giorno, nel piazzale dell’azienda, gli accenti si mescolano al dialetto polesine, ricordando quelli che erano i rapporti tra la Repubblica di Venezia e ciò che secoli fa era l’attuale Albania. Le braccia non hanno provenienza quando servono al profitto e le contraddizioni riempiono i vuoti della memoria storica.
Sveglia presto, fuori è ancora buio, caffè, sigaretta e via. Il cielo è plumbeo, la solita umidità del mattino che Sajmir non nota, mentre guarda fuori dal finestrino durante il viaggio verso il lavoro. Ha qualche pensiero, ma quel sorriso ce lo nasconde. L’impianto dove sta lavorando con gli altri è alto una decina di metri, non sappiamo in che fase delle operazioni di installazione si trovino.
Immaginiamo Sajmir a 8 metri di altezza e che ci siano i parapetti e che sia dotato di imbracatura e cordino. Ma c’è poca visibilità da qui e non vediamo in che condizioni lavori. Sono le dieci, vorremmo prenderlo, allungare le braccia, impedire questo volo, evitare il terrore nei suoi occhi, la tristezza di chi gli vuole bene, vorremmo che la storia non fosse sempre questa, ma possiamo solo aspettare che i macchinari lo tengano in vita. Per due giorni e due notti, con lo sguardo speranzoso a est.
Che le montagne ti proteggano, Sajmir! Noi non eravamo lì, non abbiamo potuto far nulla, leggiamo e proviamo rabbia, ma non riusciamo a interrompere il flusso di questa macchina. Era il 12 novembre e il 14 abbiamo appreso che non ce l’hai fatta. Non avevi un nome il giorno in cui sei caduto, eri “un ragazzo di 23 anni di origine albanese”. Sajmir, “il giusto”, che il tuo nome si faccia azione.
Il racconto si basa su un infortunio realmente accaduto il 12 novembre 2020 ai danni di Sajmir Thartori, durante i lavori di installazione di un essiccatoio presso un’azienda cerealicola, che il 14 novembre 2020 si è concluso con esito mortale. Sajmir, 23 anni, lavorava come operaio per la ditta appaltatrice. Sono stati aggiunti elementi di fantasia e attualmente sono in corso le indagini da parte degli organi competenti.
* Tecnico della prevenzione ASL. Mi occupo di salute e sicurezza sul lavoro con tutta la passione che questo tema merita. Sono cresciuto tra racconti ed esperienze dirette di migrazioni, storie del movimento operaio e bracciantile. Scrivo articoli e racconti sul mondo del lavoro, perché solo la potenza della forza lavoro, spesso invisibile, può liberarlo dalle ingiustizie.