Cranio rasato a zero, barba lunga e fitta, tagli sanguinanti sul viso e sulle mani, lividi attorno agli occhi, punti di sutura sulle sopracciglia. Fabrizio Gifuni è La Belva. Titolo e soprannome del protagonista di un film intrigante, essenziale, cupo e brutale, opera seconda di Ludovico Di Martino (regista di Skam), prodotto dalla sempiterna Groenlandia di Matteo Rovere. Stavolta Rovere, però, ci prende in pieno e punta su un esordio in grande stile: una storia di genere, masticata sì, ma ancora masticabile, con al centro un silente, schivo e incazzato ex capitano delle forze speciali dell’esercito a cui rapiscono la figlioletta. Rovere rilancia un’idea di stringato, preciso, pulsante cinema d’azione, poliziesco e alla Rambo (Gifuni ferito si cuce da solo un fianco ndr).
Più operazione che opera – come spesso capita con Groenlandia – ma armonicamente cesellata nelle caratterizzazioni generali, nelle sequenze d’inseguimento in auto e nelle pistolettate, come nei sofferti e violenti scontri fisici a mani nude tra La Belva – Leonida Riva/Gifuni – e criminali feroci. Intanto Di Martino (che sceneggia con un gruppetto di colleghi: Claudia De Angelis, Nicola Ravera, Andrea Paris) prevede di togliere ogni riferimento temporale e spaziale che non sia quello basico di un magma indistinto, grigiastro, illuminazione tendenzialmente al neon, tra vittime, carnefici e forze dell’ordine, attualizzato ad una contemporaneità possibile. Non c’è un vero e proprio luogo connotato da punti urbani riconoscibili (a volte lo sfondo del film pare Milano o addirittura Berlino), ma un lungo take da esterno sera/notte che sembra permeare filosoficamente ed esteticamente l’intero film (che ha pure diversi interni di certo non meno scuriti freddamente).
La peculiarità base de La Belva è intanto questa: rendere visivamente universale, quindi vendibile, quindi fruibile, un film (di genere) italiano. Per certi versi è un procedimento produttivo e di senso che ricorda l’ottimo Veloce come il vento. Poi c’è Gifuni, che vale tre quarti di film. Ma prima di raccontare lo splendido Fabrizio che per una volta non deve mostrare quanto al cinema è stato magistralmente e soprattutto un attore di microespressioni e di parola, che qui invece mette in gioco il proprio corpo, totalmente, meglio dare qualche traccia di sinossi di fronte al lettore insofferente.
Non basta nemmeno intuire che Riva, imbottitosi di pillole per combattere lo stress post-traumatico da 30 anni di missioni militari devastanti, deve tornare ad una parvenza di normalità familiare (ha una moglie, un figlio grande e una figlia piccola), ecco che un pericoloso gruppo di spietati criminali, sia spacciatori che magnaccia, capitanati dal mefistofelico Mozart (un Andrea Pennacchi stratosferico in cappotto d’Astrakan che sul finale del film urla una battuta cult – “te copo” -), mette le mani sulla piccola Teresa. La colpa è della superficialità del figlio di Riva e ad accorrere sul luogo del rapimento (un fast food con tavolini all’aperto, molto “America sui manifesti” ma comunque very cool) è l’apparentemente titubante vicequestore Simonetta (Lino Musella). Appena fiutato dalla radio della polizia che una volante sta inseguendo una jeep sospetta e La Belva, giunta silenziosa sul luogo del rapimento, si getta alla guida per rincorrere i rapitori (sequenza d’azione coi fiocchi, soprattutto grazie al montaggio sui pedali e sul cambio per accelerare-curvare-sfondare cancelli). Da quel momento la detection la compirà Riva, mentre la polizia gli correrà a sua volta dietro, non fidandosi del suo agire violento e silenzioso. Il graduale avvicinarsi del protagonista alla corta ma articolata catena di gangster che imprigionano la figlia ci offrirà il tempo di alcuni flashback per comprendere le torture e i traumi subiti dal nostro nel suo passato militare.
La Belva, il film intendiamo, ha così una struttura a due tempi: nel primo di circa un’ora, Riva rincorre i cattivi menando fendenti (e prendendone parecchi), giungendo a un passo dalla figlia rapita fino ad una brusca battuta d’arresto; il secondo, una mezzoretta, è quello del ritrovamento della bimba con sequenza finale di regolamento dei conti al fulmicotone sul tetto di un grattacielo. Ecco, allora, la performance di Gifuni. Avvolto in un bomberone verde, con braccia tatuate, felpa con cappuccio, il Riva/Belva dell’attore romano è un corpo apparentemente invincibile ma tragicamente vulnerabile che si getta frontalmente contro il pericolo sfidando la morte, spesso con il respiro sibilante di un uomo che fatica a riprendere fiato dopo aver subito pugni, calci, coltellate e pallottole.
Gifuni entra nel ruolo del picchiatore con una umiltà certosina, scremando ogni psicologismo forzato, concentrandosi nel rendere le scene di lotta a mani nude come qualcosa di epico ma allo stesso tempo sfuggente, grondanti di una dinamicità realistica sanguinolenta ma allo stesso tempo ieraticamente tragiche. Una scommessa vinta dentro al film, anzi al servizio di una regia che azzarda il set come produttore di senso e di confini interpretativi. Ispirandosi ad un freddo realismo digitale un po’ alla Michael Mann, Di Martino si spinge a girare uno “stallo alla messicana” tarantiniano mica da ridere, per poi darsi spesso a questa divisione verticale dello spazio inquadrato (set e production design di Fabrizio D’Arpino), spesso con da una parte un oggetto/soggetto immobile e dall’altra un oggetto/soggetto in movimento. Basta guardare l’uso di lunghi caseggiati con vetri a specchio o in acciaio che mangiano mezza inquadratura (fuori dalla questura o dall’ospedale); oppure la claudicante sequenza dell’inseguimento di una criminale fuggitiva da parte de La Belva in un cantiere navale con il protagonista gradualmente sempre più lento fino all’immobilità da una parte dello schermo, mentre nell’altra metà in verticale la donna accelera la fuga stando ferma sopra ad un marchingegno meccanico che si sposta sempre più velocemente. Su Netflix dal 27 novembre. Non vi accorgerete nemmeno che è un film “italiano”.