NEL NOME DEL DIAVOLO - 2/3
“Galleggio aggrappato a quella cassa di legno, alla deriva su un mare morbido, funereo…”. La vita di un ragazzo qualunque (senza dettagli precisi, senza un passato e presente riconoscibili) come rito di passaggio “per aggiustare il proprio esserci, il proprio mondo e il mondo di tutti”. È uno stranissimo oggetto, questo Nel nome del diavolo (IlSaggiatore), un romanzo sinistro come uno stato di allucinazione prolungato e irreale, scritto con puntiglio estatico dall’antropologo Lorenzo Alunni. A un uomo, pare piuttosto giovane, vengono fatte le condoglianze per uno zio morto del quale lui nemmeno sapeva l’esistenza. Madre e padre fugacemente tacciono, e pure una tizia che forse ha avuto un rapporto con questo zio appare con fare sfuggente. Il protagonista, melomane infastidito (“ascoltavo l’opera contro i miei gusti, eppure l’ascoltavo di continuo”) parte per Lampedusa per capire chi fosse lo zio, isolatosi là da molto tempo. Raggiunta l’isola, il protagonista sempre vivendo in un perenne stato di noia, fastidio, torpore, scopre che diversi conoscenti dello zio sanno tutto di lui. Finirà prima perduto nel Centro migranti a spiare un rito compiuto da alcuni ragazzi africani; poi a Messina, davanti al teatro Vittorio Emanuele (dove Giuseppe Verdi diresse il suo Macbeth davanti allo spettatore Herman Melville) spiando un altro rito compiuto da una famiglia sudamericana; infine nel cimitero delle Fontanelle di Napoli, dove si avvicinerà nuovamente ad un gruppo di donne che sta ripetendo una litania assieme ad un uomo. Ogni volta il protagonista verrà cacciato ed inseguito, entrerà in una sorta di trance, e sgraffignerà ai vari partecipanti alcune pagine svolazzanti verso il fuoco dal Moby Dick di Melville, romanzo che peraltro il protagonista sostiene di non aver mai letto e di non volerlo fare mai. Il ragazzo descrive così i fatti raccontati: “era come se gli elementi che si stavano intrecciando nel dar forma alla mia esperienza di quei giorni non potessero che allontanarmi da ogni ordinaria concezione del tempo, proprio come nella fase di transizione – sospesa, atemporale e libera da ogni ragionevolezza – dei riti di passaggio”. Per giungere a questa “esperienza” tripartita spazialmente ma omogeneamente evocativa, Alunni restituisce gli stati allucinatori attraverso un magma/flusso in prima persona che spesso perde l’uso del punto per diverse pagine (nel capitolo su Lampedusa si arriva a ben 4 pagine senza) mescolando stralci de Il naufragio della baleniera Essex di Owen, Moby Dick, episodi delle vite di Verdi e Melville, tracce di guide turistiche che illustrano la storia spiritista e misteriosa delle Fontanelle, e pure una spruzzatina kafkiana (“il buco dentro di me”). Apparentemente confusionario e ridondante, Nel nome del diavolo ha comunque un suo preciso incedere a chiazze, in una commistione antropologica tra sacrifici, riti e trance, flash su teste mozzate da indigeni, maiali uccisi per esperimenti, migranti che paiono stregoni, in un ‘altroquando’ immanente e politico che ha un suo ammaliante soffuso respiro ipnotico e febbrile. Voto (etereo): 6/7.