Addio a Lidia Menapace, morta a 96 anni dopo essere stata ricoverata a causa del Covid nel reparto di malattie infettive dell’ospedale di Bolzano. L’Italia perde oggi una delle sue partigiane combattenti. Se ne va una voce sempre libera, punto di riferimento della lotta per le donne, per i diritti di tutte e tutti, per la pace. “Lotta” e categoricamente mai “guerra”, parola che rifuggiva in tutte le sue implicazioni. Ci lascia oggi un’amante della politica fatta di azioni (e gesti) e mai di parole urlate. Fino all’ultimo assetata di partecipazione, perché è nel confronto che nascono le idee. Disse: “La lotta è ancora lunga” perché “quello che abbiamo ottenuto è ancora recente e fatica a durare”. E anche per questo, la sua assenza sarà ancora più dolorosa mentre il Paese cerca di immaginarsi un futuro fuori dalla pandemia. Ecco, forse, all’Italia più di tutto mancherà l’immaginazione di Lidia Menapace: lei che l’enciclopedia delle donne di Monica Lanfranco e Rosangela Pesenti definisce “l’anticipatrice“ e che è sempre stata in prima fila nell’immaginare il nuovo. Perché era nei suoi interventi, 60 anni fa come oggi, che all’improvviso diventavano possibili altre strade, altri mondi, altre soluzioni.
Lidia Brisca (Menapace è il cognome del marito Nene con cui ha condiviso la vita) nasce a Novara nel 1924 e da giovanissima diventa staffetta partigiana nella formazione della Val d’Ossola. Nome di battaglia: Bruna. “Anche se mai ho voluto toccare le armi”, ci teneva a dire. “Vengo alla fine ‘congedata’ col brevetto di ‘partigiano combattente’ (ovviamente al maschile) e col grado di sottotenente e divento furiosamente antimilitarista“, raccontò in un contributo pubblicato dalla Libera università delle donne. Della sua storia partigiana ha parlato fino al 25 aprile scorso, nell’ultima intervista a Gad Lerner trasmessa su Rai3: “Contesto l’idea che le donne potessero essere solo staffette perché la lotta di liberazione è una lotta complessa”. E “il Cnl del Piemonte mi disse che potevo essere partigiana combattente anche senza portare armi“. Di noi dicevano che “eravamo le donne, le ragazze, le puttane dei partigiani”. Ma “senza le donne che ricoveravano l’esercito italiano in fuga non avrebbe potuto esserci la resistenza“. E anche per questo, nonostante Togliatti avesse chiesto alle donne di non partecipare alla sfilata della Liberazione a Milano “perché il popolo non avrebbe capito”, lei Lidia Menapace quella sfilata la fece comunque. “Sono rimasta partigiana tutta la vita, perché farla è una scelta di vita“. Un racconto limpido che disarmava nel suo essere incontestabile. Ci provarono i renziani ai tempi del referendum sulla Costituzione ad aprire distinzioni tra “partigiani veri” che votavano a favore contro gli altri che si battevano in difesa della Carta. Lidia Menapace, intervistata a Di Martedì, ci rise sopra: “Devono ripassare un po’ la storia”. Non c’era molto altro da dire.
Lidia Menapace si laurea a 21 anni nel 1945 con il massimo dei voti in letteratura italiana. Come ricorda l’Enciclopedia delle donne, in occasione di un incontro a Genova nel 2011 racconta che il giorno della sua laurea un professore la lodò dicendo che il suo lavoro era “frutto di un ingegno davvero virile”. Naturalmente non gliela fece passare, ma alla sua replica venne bollata come “un’isterica”. Quella frase non l’ha mai dimenticata e fu, a suo modo, l’inizio di tante lotte. Dopo la guerra Lidia Menapace si impegna con la Fuci – Federazione Universitaria Cattolica Italiana e nel 1964 è stata la prima donna eletta nel Consiglio provinciale di Bolzano con la Democrazia cristiana insieme a Waltraud Deeg. In quella stessa legislatura diventa la prima donna ad entrare nella giunta provinciale, come assessora effettiva per affari sociali e sanità. Nel 1968 però, lascia la Democrazia cristiana e dopo esseri professata marxista perde ogni possibilità di fare carriera all’università Cattolica (dove insegnava). Nel 1969 è tra i fondatori nel primo nucleo de “Il Manifesto” per il quale ha scritto fino agli anni ’80. Nel 1973 è tra le promotrici del movimento Cristiani per il Socialismo. Dal 2006 al 2008 è senatrice di Rifondazione comunista. Avrebbe dovuto diventare presidente della commissione Difesa, ma perde il posto per le sue dichiarazioni contro le Frecce tricolori: “Solo in Italia vengono pagate con i fondi pubblici”, disse a Trieste. Bastò perché al suo posto andasse Sergio Di Gregorio dell’Italia dei valori. Finisce il suo impegno in Parlamento, ma non per questo interrompe l’attività politica. Nel 2011 entra nel Comitato Nazionale dell’Anpi. Nel 2013 viene lanciata una raccolta firme perché fosse nominata senatrice a vita. Tra le promotrici Monica Lanfranco che scrisse: “E’ probabilmente la miglior testimonianza di come il Paese nel suo complesso, e la sinistra in particolare, non sappia valorizzare i suoi talenti”. Senatrice a vita Lidia Menapace non lo diventerà mai. Ma il suo impegno in prima fila continua: dalla campagna per il no al referendum Renzi alla candidatura con Potere al popolo nel 2018.
Lidia Menapace è stata una femminista, in molti casi la prima a portare avanti temi che poi sarebbero diventati cruciali. “Nei paesi formalmente democratici, non si può più escludere un genere da alcuni diritti. Bisogna però stare attenti. Conviene buttarsi al massimo nelle lotte paritarie. Cominciare a protestare subito se le bambine hanno minor accesso all’istruzione o se si chiede alle donne di stare in casa a occuparsi della famiglia”, ha detto a ilfattoquotidiano.it nel 2013. Ma nella sua lotta c’era una consapevolezza che arrivava da lontano: “Mia mamma ha coniato un codice etico per le due figlie”, raccontò nel 2016 nel documentario “Non si può vivere senza una giacchetta lilla”. “Siate indipendenti economicamente e poi fate quello che volete. L’importante è che siate indipendenti per le calze. Non si può essere indipendenti per la testa e non nei piedi”. La libertà economica come punto di partenza imprescindibile per avere l’emancipazione delle donne: tutt’oggi le lotte femministe partono da quel semplice e ancora così fragile assunto. Ma non solo. E’ stata la prima Lidia Menapace, scrive sempre l’enciclopedia delle donne, a “mettere l’accento sull’importanza del linguaggio sessuato come strumento fondamentale contro il sessismo“. Anticipando, ancora una volta, lotte che sono oggi quanto mai attuali. Scrive nel 1993 nella prefazione di “Parole per giovani donne”: “Se è tanto poco, dicevo, perché non si fa? Non si fa perché il nome è potere, esistenza, possibilità di diventare memorabili, degne di memoria, degne di entrare nella storia in quanto donne, non come vivibilità, trasmettitrici della vita ad altri a prezzo della oscurità sulla propria”. La risposta per tutti coloro che ancora oggi si ostinano a non declinare al femminile sindaco, avvocato e ministro.
A lei si deve una delle definizioni più belle del Movimento femminista: lo ha chiamato “carsico”, come un fiume che “sprofonda” e riemerge in spazi e tempi apparentemente lontani. Lidia Menapace credeva nella potenza degli incontri, del “parlarsi di persona”, scambiare gesti ed espressioni. Comunicare guardandosi in faccia e capire andando a vedere. I suoi tour per l’Italia, la sua spinta continua a viaggiare fino all’ultimo per andare là dove veniva invitata. Perché l’immaginazione per avere sfogo ha bisogno di sensazioni ed emozioni raccolte in prima persona. Per trovare i suoi scritti bisogna cercare le tracce tra articoli (Marea, Liberazione, Il paese delle donne) e libri (da “Economia politica della differenza sessuale” a “Resisté, Il dito e la luna”). Ma la sua testimonianza è andata oltre la parola scritta ed è stata in prima linea ogni volta che lo ha ritenuto necessario: dal no dal Molin alle sardine fino alle lotte per il diritto delle donne a non avere figli (è tra le voci del documentario prezioso Lunàdigas). Lidia Menapace credeva nella politica, ma prima tutto credeva nella politica di pace. “Insieme ad altre ho dato vita a una Convenzione permanente di Donne contro le guerre che ha una articolazione teorica di nome Associazione “Rosa Luxemburg”, spiegò sempre nell’intervento per l’università delle donne, “vogliamo costruire una cultura politica che escluda la guerra come strumento per il governo dei conflitti. Rosa con i suoi scritti e la vita ci fornisce tracce di pensiero e pratiche di azione di grande respiro e attualità, anche per una ipotesi rivoluzionaria non leninista-militarista ma sociale e quasi senza stato. E anche molti suggerimenti di analisi economica. Rosa era ebrea, come si sa, e quando fuggì dalla Polonia nativa, che era sotto gli Zar, per andare in Germania fu preceduta dai suoi compagni del partito socialista polacco con una lettera ai compagni del partito socialdemocratico tedesco in cui si diceva: ‘arriverà da voi Rosa Luxemburg, non lasciatevi sedurre da quella ragazzotta ebrea polacca’: carini,no?”.
Ma di tante cose che ha scritto Menapace, più di tutto forse oggi vale la pena ricordare le parole per l’amico Alexander Langer, pubblicate sul Manifesto a luglio 1995: “Che vuole dirmi Alex Langer con la sua morte così “ostentatamente” celebrata? Non sopporterei lo spreco del suo gesto. E allora ripercorro qualche memoria di un’amicizia intensa, affettuosa, calda, anche se saltuaria, fatta spesso solo di incontri nelle stazioni dei treni per raggiungere riunioni, dibattiti”, è il suo attacco. E continua con parole che, ancora oggi, possiamo ritagliare e usare come fonte di ispirazione: “Si può reggere a lungo una solitudine politica aspra in momenti volgari, sciocchi, vani e pericolosissimi? Mentre le mediocri biografie di personaggi per lo più meschini occupano colonne e colonne di giornali? Voci e intrighi si svolgono intorno a qualsiasi vicenda, tutto è grigio e noioso? E strumento del dibattito politico diventa il pitale che misura la gettata del piscio?”. E allora chiude: “I pericoli ci sono e sono veri. Che ci vuole infine ancora per bucare le nebbie dei nostri cervelli, il lardo delle nostre coscienze?”.
Neanche dieci giorni fa abbiamo dovuto salutare Ibes Pioli, partigiana e anche lei tra le prime a battersi per i diritti delle donne in Italia. Oggi diciamo addio a Lidia Menapace. E come ha ricordato il capo dello Stato Sergio Mattarella, tra i pochi a parlare della grave perdita di anziani decimati dal Covid (“Punto di riferimento per i giovani”), le assenze si fanno sempre più pesanti.