Il baritono e regista viterbese è tra gli autori che hanno contribuito alla drammaturgia "A riveder le stelle", lo spettacolo che sostituisce il tradizionale appuntamento del 7 dicembre con la prima della Scala. Nel suo blog in romanesco "Quelle Trame Svelate" racconta le trame degli spettacoli "come se parlassi a un amico al bar"
Lo scorso 7 dicembre era sul palco della Scala per Tosca, l’opera che ha inaugurato la stagione lirica del 2019, nel ruolo del Sagrestano. Quest’anno Alfonso Antoniozzi, baritono e regista viterbese, ha collaborato alla drammaturgia di “A Riveder Le Stelle”, spettacolo trasmesso in diretta tv sui canali Rai il 7 dicembre e che sostituisce il tradizionale appuntamento della Prima della Scala. Un cast di stelle – da Placido Domingo a Roberto Bolle – per dare un segnale di speranza in conclusione dell’annus horribilis dello spettacolo dal vivo, con i teatri chiusi e i lavoratori a casa.
Ma Antoniozzi non è solo un cantante tra i più apprezzati e un regista dalla lunga carriera. È anche un eccezionale divulgatore dell’opera lirica, genere impenetrabile ai più ma dall’anima sorprendentemente pop. Un mestiere (se così vogliamo chiamarlo) nato per caso grazie al blog ‘Quelle Trame Svelate’, uno spazio in cui racconta gli intrecci di Verdi e Puccini come se fossero pettegolezzi sui vicini di casa un po’ eccentrici. “Le trame dell’opera – dice al fattoquotidiano.it – oggi sarebbero il perfetto materiale da serie tv”. Tra un’alzata di sipario e l’altra Antoniozzi ha stilato un piccolo Bignami del melodramma in romanesco: c’è Don Giovanni che corteggia le donne “giusto pe fa mucchio: fori una, dentro un’artra“. C’è la Gioconda, che non è “quella che sorride e ve guarda sempre dar salotto de nonna” e c’è anche il Barbiere di Siviglia, in cui la protagonista Rosina viene tenuta sottochiave dal tutore “mica perché era innamorato, ma perché je s’era magnato tutti li sordi e se la voleva sposa’ lui così gnisuno se ne sarebbe accorto“.
Il blog è nato per caso: “Le persone su Facebook si lamentavano che non capivano la trama del Simon Boccanegra, allora io ho provato a raccontarla come avrei fatto con un amico al bar. E siccome mi divertivo, ho continuato”. E da lì, un titolo dopo l’altro: Il Trovatore, Norma, Madama Butterfly. Che poi non sono altro, prendendo in prestito la definizione dell’autore, “storie di gente che canta remandoce dem…a a turno”, dove la censura copre un modo colorito per indicare tutto lo strazio, le lacrime, gli struggimenti tipici del melodramma. “Prendiamo ad esempio Il Trovatore: è più plausibile Beautiful“. Tutto succede – spiega Antoniozzi – perché una zingara s’è messa in testa di vendicare la madre bruciando il figlio del Conte, ma siccome non ci sta molto con la testa, finisce per dar fuoco al suo: “Con tutte quelle morti cruente, scambi di persona e colpi di scena, ci verrebbe una serie di almeno sei stagioni su Netflix”. Oppure, Rigoletto. “La storia è: potente politico stupra figlia di gobbo – riassume Antoniozzi – Barbara D’Urso, con una storia del genere, ci avrebbe fatto uno speciale di una settimana”. Che poi, anche due secoli dopo, certi temi non vanno mai fuori moda: “Non è che le escort di lusso siano finite dopo Violetta di Traviata“, spiega Antoniozzi. Però il mondo intorno cambia: “Oggi un’emarginata come Violetta potrebbe essere una transessuale che si prostituisce. Una storia d’amore con una escort redenta non fa più scandalo. Se nel 2020 un ragazzotto di provincia si facesse mantenere, padre Germont gli direbbe: Bravo a papà!”.
Scritto con genuino umorismo, Quelle Trame Svelate riesce nell’impresa di far scendere il melodramma dal piedistallo dove viene collocata, molto simile all’ultimo scaffale della libreria, quello dove si mettono i libri che non si apriranno più. “C’è un fraintendimento enorme sull’opera lirica: viene considerata una cosa chic, d’élite, ma è un genere nato per intrattenere il popolo – spiega Antoniozzi – specialmente dell’Ottocento. Le opere erano scritte dalla gente, erano le serie tv di allora”. A teatro si mangiava, si beveva, si stringevano mani. Chi era abbastanza ricco da avere un palchetto lo usava come un salotto personale, per improvvisare una bisca o – perché no – per incontrare le amanti a tendine chiuse. Tutti gli altri ne approfittavano per godere del calore, della compagnia, dell’intrattenimento: in mancanza della tv, qualcosa bisognava pur inventarsi.
Trentotto anni di carriera come cantante e come regista, quest’anno la pandemia ha sconvolto tutti i suoi piani, costringendolo a ripensare il lavoro giorno per giorno, dpcm per dpcm. Alcuni teatri stanno cercando strade alternative: il San Carlo di Napoli ha trasmesso online Cavalleria Rusticana, vendendo i biglietti al prezzo simbolico di 1,09 euro. L’Opera di Roma invece ha trasmesso il suo Barbiere di Siviglia su Rai3. Ora tocca alla Scala, che dovendo rinunciare all’allestimento di un’opera ha organizzato uno spettacolo di danza e canto per la tv. Il Covid ha messo in grande difficoltà le fondazioni liriche, che in molti casi già faticavano a stare a galla prima della pandemia. “Paradossalmente – aggiunge Antoniozzi – abbiamo inventato noi l’opera e siamo l’unico Paese che fa fatica a riempire i teatri”. Il baritono viterbese prova a elencare le ragioni: “Il prezzo dei biglietti che taglia fuori una buna fetta di utenza. Ma del resto, se questi sono i denari che arrivano dallo Stato, da qualche parte bisogna pur pescare. E poi c’è stato un grande errore di strategia: comunicare l’opera come una cosa elitaria”. Viene percepita come una cosa da intellettuali (quando va bene) o da radical chic, da vecchi. Qualcosa di lento, faticoso, di incomprensibile. Nel senso letterale, perché non si capiscono le parole.
Ma come dimostra il blog, alla fine l’opera parla di noi: equivoci, vendette, mascalzoni, ragazze gelose, donne abbandonate, padri troppo severi, denari. “Il trucco per appassionarsi all’opera è andarci, quando si potrà. Una volta. Magari cominciando da una commedia”. Non solo per (ri)scoprire un genere, ma anche un pezzettino della nostra identità, una di quelle cose che ci ha reso famosi nel mondo, per cui avere un piccolo sussulto d’orgoglio all’estero. Come la pizza, come la moda. “In questi strani tempi in cui ci tocca vivere, abituati a pensare che in Italia è tutto un disastro, dovremmo essere orgogliosi di avere produzioni di questo calibro e professionisti giganteschi. Lo abbiamo inventato noi, e facciamo ancora scuola nel mondo”.